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22 Dicembre 2025
Nicola Matteucci

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Minori digitali, tra sfide ed emergenze. Una proposta educativa (e regolatoria)

ECONOMIA APPLICATA

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Fascicolo 2

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Abstract Italiano

Il presente lavoro analizza come le tecnologie digitali (o ICT) hanno fortemente influenzato in modo negativo il sano sviluppo dei minori e come, nonostante ciò, esse siano state fatte entrare nei programmi scolastici, a partire dall’istruzione primaria, assumendo che il loro uso fosse positivo per i bambini di quest’età. Si osserva che, invece, alcuni Paesi europei hanno fatto retromarcia sull’uso delle ICT e che nella scuola steineriana, dove queste non hanno accesso, si adotti una pedagogia mirata al rispetto delle fasi evolutive del bambino. Se ne conclude che le evidenze disponibili sconsigliano fortemente l’anticipazione dell’uso delle ICT nel bambino, anche in ambito scolastico, in quanto essa è antagonista allo sviluppo delle abilità di base. Il lavoro lancia infine un messaggio regolatorio che prospetta un generale ripensamento dell’attuale acritica promozione pubblica del digitale nella società occidentale, rifondandolo sulle evidenze scientifiche.

Abstract English

This work analyzes how digital technologies (or ICT) have strongly influenced in a negative way the healthy development of minors and how, despite this, they have been introduced into school programs, starting from primary education, assuming that their use would have been positive for children of this age. It is observed that, instead, some European countries have backtracked on the use of ICT and that in Waldorf schools, where these technologies are not used, a pedagogy aimed at respecting the evolutionary stages of children is adopted. It is concluded that the available evidence strongly advises against the anticipation of the use of ICT in children, even in the school environment, as it is antagonistic to the development of basic skills. Finally, the work launches a regulatory message that suggests a general rethinking of the current uncritical public promotion of digital media in Western society, re-founding it on scientific evidence. [Translated with Google Translate and adapted]

Abstract Français

Ce travail analyse comment les technologies numériques (ou TIC) ont fortement influencé de manière négative le développement sain des mineurs et comment, malgré cela, elles ont été introduites dans les programmes scolaires, dès l’enseignement primaire, en supposant que leur utilisation était positive pour les enfants de cet âge. On observe que, d’autre part, certains pays européens ont fait marche arrière dans l’utilisation des TIC et que dans les écoles Steiner, où celles-ci ne sont pas accessibles, on adopte une pédagogie visant à respecter les étapes de développement de l’enfant. On peut conclure que les données disponibles déconseillent fortement l’anticipation de l’utilisation des TIC chez les enfants, même en milieu scolaire, car elles sont antagonistes au développement des compétences de base. Enfin, l’ouvrage lance un message réglementaire qui suggère de repenser de manière générale la promotion publique actuelle et acritique du numérique dans la société occidentale, en la refondant sur des preuves scientifiques. [Traduit avec Google Translate].

Abstract Español

Este trabajo analiza cómo las tecnologías digitales (o TIC) han influido fuertemente de forma negativa en el desarrollo saludable de los menores y cómo, a pesar de eso, se han introducido en los programas escolares, desde Educación Primaria, asumiendo que su uso era positivo para los niños de esta edad. Se observa que, por otra parte, algunos países europeos han retrocedido en el uso de las TIC y que en las escuelas Waldorf, donde éstas no son utilizadas, se adopta una pedagogía orientada a respetar las etapas de desarrollo del niño. Se puede concluir que la evidencia disponible desaconseja fuertemente anticipar el uso de las TIC en los niños, incluso en el ámbito escolar, por ser antagónico al desarrollo de competencias básicas. Por último, el trabajo lanza un mensaje regulatorio que sugiere un replanteamiento general de la actual promoción pública acrítica de lo digital en la sociedad occidental, refundándola sobre la evidencia científica. [Traducido con Google Translate y adaptado]

di Lisa Albertani e Nicola Matteucci*


* Msc e PhD in Economics; è Professore Associato di Economia Applicata presso l’Università Politecnica delle Marche (DISES), dove insegna nelle Facoltà di Economia e di Medicina.

SOMMARIO:
1. Introduzione – 2. In principio era la TV – 2.1. Piattaforme e tecnologia – 2.2. La violenza nei media, tra industria e impatto sui minori – 3. La diffusione delle nuove tecnologie – 4. I danni delle nuove tecnologie sul minore – 5. Una proposta educativa – 6. Conclusioni

1. Introduzione

La presenza ed influenza dei media nelle società occidentali sono indiscusse: essi si sono evoluti funzionalmente e socio-economicamente, e transitando dalla tecnologia analogica a quella digitale, si sono moltiplicati in numero, tipologie e capacità di programmazione di contenuti multimediali, convergendo infine nel comune termine di ICT (Information and Communication Technologies). In esso sono rappresentati sia gli strumenti nati per la comunicazione personale (come il telefono), che quelli per la comunicazione da “uno a molti” (come originariamente erano la radio e la TV).

Nel passaggio dai mass media ad Internet e poi ai social media si è attuata un’altra cesura, che ha visto passare i media da strumenti di comunicazione a fruizione unidirezionale a bidirezionali ed interattivi, e da strumenti localizzati in precise finestre spaziali e temporali (la casa, il tempo libero dello spettatore) a media ubiqui. In questo processo di diffusione, le ICT hanno progressivamente colonizzato vari ambiti sociali (da ultimo, anche quello della pianificazione urbana, con la progettazione delle smart city), e sono stati ufficialmente accreditati come parte integrante degli strumenti e dell’offerta formativa della scuola dell’obbligo, nonostante le ICT portino con sé criticità irrisolte. Si pensi alla veicolazione di contenuti violenti, al potenziale di dipendenza da uso di strumenti visivi ed interattivi (oggetto di vere e proprie patologie), e alla contestuale perdita di abilità che sono cardini del processo educativo (lo sviluppo della fantasia, antecedente della creatività, la corretta percezione dello spazio e del tempo, le capacità relazionali fisiche, etc.).

In questa “euforia mediale e digitale”, i minori sono rimasti spesso all’ombra delle decisioni degli adulti che, in modo più o meno consapevole e competente (a seconda dei casi), hanno impostato il processo di digitalizzazione come una scelta scontata e irreversibile, foriera di un chiaro rapporto costi-benefici comunque positivo. Questo lavoro si aggiunge ad una minoritaria ma crescente letteratura che, fedele allo statuto di falsificazione progressiva delle scienze, si pone interrogativi esiziali sulle sfide poste dal digitale, specie per i minori, e vuole affrontare a volto scoperto i dilemmi di questa fase della civiltà occidentale che a tratti pare affetta da una “deriva digitale”. Per farlo in modo documentato e proattivo, senza limitarsi alla fase critica, il lavoro parte dai dilemmi dell’antecedente storico delle ICT (la TV), per cui la migliore letteratura è oggi unanime. Inoltre, unisce all’analisi della letteratura le esperienze di insegnamento sul campo di tanti docenti cresciuti all’ombra della pedagogia steineriana, che ha maturato una specifica riflessione sui pericoli connessi ad una troppo precoce esposizione dei minori alle ICT. Il fine è quello di proporre un’analisi rigorosa ma non manichea sulle ICT, che sappia distinguere tra loro potenzialità e pericoli e, rifuggendo dall’attuale dogmatismo ed estremizzazione che ne contraddistingue l’uso (anche scolastico), ne sappia individuare dei percorsi di uso compatibili con l’evoluzione ed educazione del minore.

2. In principio era la TV

2.1. Piattaforme e tecnologie

A partire dagli anni Cinquanta del secondo dopoguerra, la TV è protagonista di un veloce processo di diffusione di massa. Questo strumento di comunicazione pubblica, specie negli Stati Uniti, passa in un solo decennio da una presenza nelle famiglie del 10% (1950) alla saturazione del mercato (90% e oltre, nel 1960). Nei decenni successivi, la quantità dei contenuti e di reti TV aumenta con le nuove piattaforme di trasmissione. Alle reti trasmesse con tecnologia analogica via spettro hertziano si aggiungono quelle veicolate dai sistemi via cavo e, poi via satellite[1]. Sin dagli anni Novanta, anche in Europa si diffonde la TV a pagamento, aggiungendosi al modello di finanziamento della TV pubblica, sostenuta dal canone, e a quello della TV classica o FTA (free-to-air), ossia finanziata dalla pubblicità. Quest’ultima rimane tutt’ora il finanziamento più frequente ed importante per risorse movimentate[2]. A partire dalla fine del secolo scorso, il digitale moltiplica la capacità di trasmissione delle reti esistenti e rende l’attenzione degli spettatori la nuova risorsa veramente scarsa e strategica, su cui si concentrano rinnovati sforzi di cattura e intrattenimento[3].

Infine, a cavallo del secolo si apre la convergenza tra TV ed Internet, nelle sue varie versioni sussunte all’interno del temine di ICT[4]. Con la TV associata al protocollo “IP” (Internet Protocol) si magnificano le aspettative del mondo della pubblicità: infatti, se la TV diventa interattiva[5] , è possibile rilevare in tempo reale l’audience e perfino le scelte dei singoli spettatori, influenzandole al meglio. Con l’interattività, anche la TV digitale, nuova tappa evolutiva dei mass media, recupera competitività nella gara per la conquista dell’audience, limitando le perdite del drenaggio dei social media.

L’aumento “ciclico” di programmi TV connesso all’introduzione di nuove piattaforme e reti, ceteris paribus, rende scarsi i contenuti di qualità[6], accentuando un problema che è stato sempre presente: la concorrenza sleale tra TV di qualità e TV commerciale, con la seconda che sottrae alla prima quote di audience con una programmazione scadente, ma più profittevole (si veda la sezione 2.2). Al tempo stesso, più numerosi canali di trasmissione consentono “palinsesti tematici”, destinabili ad un target ben definito, come appunto i minori, con cartoni e serie televisive a loro dedicate. Così si moltiplica l’offerta di intrattenimento per i minori, che diventano un target ambito: infatti, con la trasformazione consumistica e consumeristica della cultura occidentale, l’età evolutiva viene vista “comandare” una crescente quota degli acquisti famigliari (non solo giocattoli, ma anche beni alimentari e vestiario). Mentre ai tempi del Carosello (1957-1977) i palinsesti televisivi segnavano iconicamente la fine della giornata di TV per i minori, oggi un’offerta abbondante e specifica di contenuti è disponibile 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno. Pertanto oggi molti minori, specie in età pre-scolare, mancando i nonni e avendo i genitori al lavoro, crescono “parcheggiati di fronte alla TV” per lunghi tratti della loro età evolutiva (da qui, la celebre metafora della TV baby-sitter).

A cavallo del nuovo millennio, si è prospettata per i minori la sostituzione tra vecchi e nuovi media, come i social fruiti tramite cellulare. Ad oggi, per l’Italia, non vi sono evidenze in tal senso generalizzate, ma solo per alcune fasce di età. Un recente report dell’ISTAT[7] ha analizzato il cambiamento trentennale del consumo di tempo libero. Secondo esso, su tutta la “popolazione televisiva”, nel periodo 1993-2020 (ossia, eccettuando il periodo pandemico) ci sarebbe stato un declino molto lieve della fruizione assoluta di TV; in dettaglio, al 2020 la TV resta ancora il media più visto, con una quota di spettatori pari al 91% della popolazione di 3 anni e più (solo -5%, in un trentennio).

Correlativamente, la quota di minori compresi tra i 3 e i 5 anni che guarda la TV è cresciuta di circa 5 punti percentuali (passando da 88,7 al 94,2% nel periodo 2000-20). Tracce di un consumo di TV in calo si rilevano solo tra adolescenti e giovani: nello stesso periodo, il consumo TV della fascia “da 15 a 19 anni” cala dal 94 al 82,2%, mentre quello della fascia “20-24 anni” diminuisce dal 93,1 al 82,2%. Pertanto, solo per queste due ultime fasce di età – adolescenti e giovani – sarebbe riscontrabile un mutamento legato al forte sviluppo dell’offerta dei social media, e alla grande diffusione del possesso del cellulare, che invece rimane limitata nelle fasce dell’infanzia.

In sintesi, i dati italiani dipingono un iniziale cambiamento del consumo di contenuti multimediali, con un modesto spiazzamento della TV a favore dei social media, che interessa solo adolescenti e giovani. Invece, la TV rimane il principale mezzo di intrattenimento per i bambini. Per questo motivo, nel prosieguo riprendiamo il lungo dibattito sulla violenza della TV e l’impatto sull’infanzia, giacché esso rimane ancora oggi attuale, oltre che irrisolto a livello regolatorio.

2.2. La violenza nei media, tra industria e impatto sui minori

Contenuti multimediali di qualità ed originali hanno costi elevati e certi, specie quando “in prima visione”. I programmi – a cominciare da film e serie TV – vengono realizzati con una lunga serie di operazioni che compongono la catena del valore: dalla scrittura del soggetto e della sceneggiatura al lavoro di post-produzione. Tanto più la creatività e l’esecuzione tecnica pesano, tanto più i costi salgono[8]. Purtroppo nei “mercati a due versanti”[9] la sola programmazione di contenuti di qualità non garantisce la propria profittabilità, e quindi il successo economico di chi ha investito su questi contenuti[10]. Il suo successo dipende da vari fattori. Innanzitutto, in un contesto oligopolistico quale è quello del mercato TV, e nella TV commerciale, le reti si contendono l’audience con opportune strategie di programmazione e di “controprogrammazione” dei rivali; pertanto, rivali forti potrebbero duplicare l’offerta di qualità di una rete minore con contenuti analoghi negli stessi giorni e fasce orarie in cui la prima viene programmata, riducendone l’audience e quindi minandone la sua sostenibilità nel tempo. Inoltre, il successo momentaneo in un versante del mercato (ad esempio, quello della raccolta di audience) potrebbe non tradursi in quello del mercato collegato della raccolta pubblicitaria, laddove quest’ultimo fosse soggetto a potere di mercato e/o imperfezioni di funzionamento[11]. Pertanto, a fronte dei costi certi dei contenuti di qualità, molto più alti di quelli della TV mediocre o spazzatura, vi è anche l’ulteriore ostacolo dell’incerta remunerazione degli stessi, che la scoraggia.

Uno dei mezzi più efficaci e spregiudicati per spostare a proprio vantaggio l’audience TV è quello della programmazione dei cosiddetti contenuti eccitanti (arousing content). Decenni di TV hanno mostrato che l’attenzione di alcune fasce di telespettatori “economicamente importanti”, come i giovani maschi, viene catturata dalla visione di contenuti forti, caratterizzati da comportamenti di edonismo, egotismo e violenza[12]: nel gergo italianizzato, si parla anche delle “tre S”: sesso, soldi e sangue. Quindi, un primo fattore di successo dei contenuti eccitanti pare essere di natura economica, consistendo nella loro efficacia nel traino dell’audience, vantaggio che viene rafforzato dal fatto che per funzionare questi contenuti non richiedono alti budget di produzione. Inoltre, questi contenuti eccitanti sembrerebbero capaci di rafforzare il loro stesso successo laddove, come evidenziato da Condry[13], essi desensibilizzano e rendono dipendenti gli spettatori a questo tipo di programmazione, fidelizzandoli con meccanismi di scelta crescentemente inconsci e compulsivi. Pertanto, seppure in letteratura sui media si siano discusse altre cause per la dilagante presenza di violenza in TV, pare plausibile che essa sia primariamente spiegabile sulla base di un mero calcolo di convenienza economica.

Prendendo in prestito le parole dell’acuto Zbigniew Brzezinski[14], analista politico e consigliere di vari Presidenti USA, «…i produttori televisivi che praticano una vera e propria pornografia culturale hanno in effetti un vantaggio competitivo su quelli che non lo fanno». Questo in definitiva sembra essere il primo e principale elemento di spiegazione dell’alto tasso di violenza che da sempre ha mostrato la TV commerciale in Occidente: il suo servizio alla logica del massimo profitto, per le reti commerciali che la programmano. Altri ve ne possono essere, seppur di importanza e/o quantificazione più incerta, come ad esempio la scarsità di soggetti, scrittori e produttori di talento ed eticamente orientati, che siano capaci di realizzare programmi di qualità ed adatti per l’infanzia[15]. Scarsità che, comunque, si deve essere accentuata con la proliferazione delle reti e piattaforme digitali che, all’atto pratico, provoca un effetto economico analogo a quello causato dal potere di attrazione dell’audience dei contenuti eccitanti: ossia, i più costosi contenuti di qualità vengono spiazzati dai contenuti inferiori, efficaci per l’audience e a buon mercato, complice anche la mancanza di una educazione – anche scolastica – all’uso critico della TV nella popolazione televisiva. Infine, vi sono anche vantaggi di competitività e commercio internazionale, per cui contenuti TV nordamericani trovano facile mercato in Europa, a motivo delle economie di scala e delle politiche tariffarie da essi fruite, e della frammentazione linguistica e culturale dei mercati europei. Sopra tutto, la cosa più interessante è che, come evidenziato dallo studio sperimentale di Bushman[16], contenuti eccitanti di sesso e/o violenza sembrano essere antagonisti al successo commerciale dei prodotti sponsorizzati durante la trasmissione di quei contenuti, comportando una minore memoria di quel marchio o prodotto. Seppur sembri paradossale, ciò è ben spiegabile con i meccanismi psicologici della percezione umana, e significherebbe che la prima vittima della illusorietà della pubblicità siano gli stessi inserzionisti. Essi, fidandosi delle statistiche sull’audience, cadrebbero nella trappola logica che all’audience di contenuti eccitanti segua automaticamente la ritenzione del (loro) marchio e la decisione di acquisto (cosa che appunto non si verifica). Meraviglie del mezzo televisivo!

La consapevolezza circa l’alta presenza di violenza in TV è vecchia quanto il medium. Già negli anni Cinquanta se ne parlava nell’ambito della sottocommissione sulla delinquenza giovanile del Senato USA, quando si organizzavano le prime audizioni parlamentari con i rappresentanti dell’industria TV[17]. L’ipotesi di un probabile legame tra violenza in TV e nella società ispira nel 1972 la redazione del report Television and Growing Up: The Impact of Televised Violence[18], che inaugura uno sforzo sistematico di ricerca. Questo report stigmatizza i livelli di violenza raggiunti in TV rilevando che, negli anni 1967-68, nei programmi di intrattenimento si verificano ben otto incidenti violenti per ora, mentre stime successive dell’American Psychological Association indicano che il bimbo e adolescente medio negli USA vede ogni anno in TV 10.000 assassinii, violenze sessuali e assalti gravi[19].

Seguendo il report del 1972, in un solo decennio si produrrà un’ampia mole di studi anche sperimentali, analizzati in due volumi a cura del National Institute of Mental Health[20]. In essi si constata come da un lato ci sia evidenza “sperimentale” su una causazione dell’aggressività di alcuni bambini nel breve periodo da parte della visione di violenza in TV; dall’altro, vi è una evidenza da studi “sul campo” che la visione prolungata di violenza in TV anticiperebbe la manifestazione di comportamenti aggressivi nel lungo periodo. Il rapporto, seppur deponga a favore di una relazione causale, rimanda a studi futuri alla ricerca di maggiori evidenze. Nei decenni successivi, le evidenze sulla relazione causale tra visione di TV e violenza sociale si perfezionano, ma altre critiche metodologiche si aggiungono, per rimarcare i residui difetti statistici e avanzare spiegazioni diverse. Noto è lo studio di Centerwall[21], che studia i tassi di omicidio in Stati Uniti, Canada e Sud Africa, e trova che nei primi due paesi vi è un ritardo di 10-15 anni tra l’introduzione della TV ed il raddoppio dei tassi di violenza, proprio il ritardo che uno si attenderebbe considerando l’influsso della TV sui bambini; ritardo che si è ripetuto in Sud Africa (dove la TV è stata introdotta nel 1973), seguito da analoghi esiti di violenza.

Peraltro, l’analisi di Centerwall è interessante anche per la mappatura territoriale di questa correlazione: il tasso di omicidi aumenta dapprima nelle aree urbane (dove la TV viene introdotta prima) e poi in quelle rurali; aumenta prima tra le etnie bianche e più benestanti, e dopo tra le minoranze etniche (come l’analoga diffusione degli apparecchi TV); infine, la violenza aumenta dapprima nelle aree geografiche di prima introduzione della TV. Sulla base del suo lavoro, Centerwall stima che l’esposizione di lungo termine alla TV violenta sarebbe causa della metà circa degli omicidi in USA, e che 10.000 vite umane potrebbero essere salvate ogni anno controllando la violenza televisiva.

Il dibattito scientifico e di policy è proseguito nel continuo rimpallo tra il perfezionamento delle evidenze sui danni sociali della violenza in TV e nuove critiche metodologiche, e si è allargato ad altri media, come i videogame; questi ultimi sono divenuti oggetto di una crescente e autorevole letteratura, che ne ha dimostrato il forte impatto sull’aggressività minorile[22], il quale si evidenzia come fattore a sé stante anche nella popolazione minorile reclusa o comunque soggetta a misure giudiziarie[23]. Browne e Hamilton-Giachritsis[24] conducono una rassegna della letteratura sui media violenti da una prospettiva di public health, focalizzandosi sugli studi più probanti (ossia, con systematic and meta-analytic reviews). Ne concludono che la fruizione di immagini violente nel breve termine aumenta la probabilità di comportamenti aggressivi e di vittimizzazione da paura, il cui effetto rilevato però cala all’aumento dell’età del minore. Nel lungo termine, invece, gli effetti sono meno rilevabili, anche per ostacoli metodologici di difficile soluzione. Infine, viene riconosciuto il ruolo mediatore di co-fattori, ceteris paribus: ad esempio, l’influsso dei contenuti violenti aumenta nei minori con contesti predisponenti (violenza in famiglia), o con specifici tratti di personalità.

A tutta prima, la lenta convergenza del dibattito scientifico sull’ipotesi di causazione sembrerebbe rispecchiare il fisiologico funzionamento della scienza, che progredisce nel confronto tra posizioni diverse, e per falsificazioni successive. Tuttavia, una simile prospettiva epistemologica rischia di divenire ingenua, se non addirittura fuorviante, quando non approfondisce l’analisi di contesto della diatriba scientifica. In molti settori, la scienza è popolata anche da interessi materiali contrapposti e vede gruppi di soggetti rivali competere per la propria affermazione, sia essa solo accademica, o anche economica e politico-istituzionale. Inevitabilmente, questi gruppi possiedono agende private (non necessariamente coincidenti con l’interesse pubblico “al pieno svelamento della verità”), scontano i relativi conflitti di interesse, e possono usare strumenti di lobbismo e di cattiva condotta nella ricerca con il principale fine di condizionare o corrompere le stesse evidenze scientifiche, e per tale via influenzare la regolazione e le scelte pubbliche, fino a raggiungere la “cattura del policy-maker[25].

Pertanto, l’impossibilità di arrivare ad una regolazione efficace della violenza nei media nonostante il forte progresso delle evidenze scientifiche a suo supporto potrebbe prestarsi ad una spiegazione eminentemente regolatoria (ossia, di avvenuta cattura). Peraltro, il potere di lobbying dei gruppi TV e multimediali è ben superiore a quello delle altre industrie che sono state già studiate come attive nel lobbismo e nella corruzione scientifica su temi biomedici (ad esempio, l’industria del tabacco, dei farmaci, e del gioco d’azzardo)[26]: infatti, i primi possiedono l’accesso privilegiato ai propri canali di comunicazione quali potenti strumenti di costruzione e condizionamento dell’opinione pubblica, che le altre industrie invece devono pagare.

Infine, la violenza nei media è solo una delle molte ragioni (probabilmente la più dirompente per impatto sociale) che giustificano una stringente regolazione della loro offerta e consumo, non solo minorile. Per Condry[27], che arriva a definire la TV come “ladra di tempo” e “serva infedele”, la TV dà una rappresentazione comunque e sempre falsata della realtà, che danneggia soprattutto chi, come il minore, ha una difficoltà fisiologica a distinguere i fatti dalla finzione. Pertanto, anche con contenuti non violenti, la TV insegna quello che è “profittevole per sé”, non ciò che è “vero” o “importante” per la maturazione umana; come rilevato nella sezione 2.1, i media commerciali funzionano in quanto catturatori di attenzione e venditori di audience. In definitiva, la TV commerciale, anche quando non violenta, mina gli sforzi delle agenzie educative (scuola e famiglia) e, come enfatizzato da una recente letteratura sulle determinanti del benessere soggettivo, si pone come distruttrice di “beni relazionali”[28]; che sono poi un principale determinante della felicità.

3. La diffusione delle nuove tecnologie

Un tempo, nemmeno molto lontano, si udivano gli schiamazzi allegri dei bambini che giocavano per le strade, i giardini e i parchi e a guardarli, avevano un bel colorito roseo sulle guance e trasmettevano gioia, movimento e salute. Anche la vita nelle case era diversa: i genitori e i figli si riunivano a tavola dove, oltre a dedicarsi al nutrimento fisico, nutrivano anche le loro anime con il calore dei loro racconti e dell’ascolto. A distanza di un paio di decenni, forse anche meno, questo già pare un lontano ricordo custodito nei cuori di qualche individuo nostalgico nato prima degli anni Novanta del ‘900. Le strade, i giardini e i parchi di oggi non brulicano più di bambini che vivevano in quegli istanti e in quei luoghi vere e proprie esperienze di vita e di socialità, ma spesso si vedono preadolescenti e adolescenti seduti sulle panchine in gruppo ma anche da soli e con il telefono cellulare multimediale[29]in mano. Anche alcune famiglie hanno perso il senso di calore e accoglienza di un tempo e l’arrivo dei computer portatili, tablet e telefoni cellulari multimediali ha reso obsoleta persino la televisione e ha drasticamente diminuito lo scambio tra membri delle medesime famiglie.

La recezione di un bambino piccolo di queste nuove tecnologie presenti nelle famiglie di oggi rappresenta anche un aspetto critico. Capellani[30] presenta un elenco dei dispositivi elettronici di uso quotidiano disponibili nelle case: lavatrice, lavastoviglie, forno, forno a microonde, frigorifero, condizionatore, etc. e a questo proposito McAllen[31] dice: «Ciò che oggi è diverso è il caos delle impressioni sensoriali che si riversano in loro [nei bambini] a partire dal giorno della nascita: rumori della radio, della TV, l’aspirapolvere che ronza intorno al lettino, il rumore sordo e la corsa precipitosa della lavatrice o della lavastoviglie, le persone che vanno e vengono, le luci che si accendono e si spengono. Quanto è diverso tutto questo dal battito ritmico del cuore della madre, le dolci onde della sua circolazione sanguigna e il suono attenuato della sua voce, che le ricerche moderne ci dicono che il bambino ode nell’utero». Di per sé già tutta questa modernità, per forza di cose, influisce nella vita di un bambino piccolo che, come vedremo poi, è tutto “organo di senso”.

Lo statunitense Prensky[32] conia il nuovo termine digital native, “nativi digitali”, chiamati anche “N-gen” (da Net-generation) o “D-gen” (da Digital-generation) da altri studiosi contemporanei, per indicare tutti gli individui, dall’asilo all’università, che sono nati e cresciuti circondati da computer, videogiochi, telefoni cellulari, lettori MP3 etc. È chiaro ormai che queste nuove tecnologie fanno parte della quotidianità delle nuove generazioni sin dalla nascita e un gran numero di individui non riuscirebbe nemmeno ad immaginare la propria vita senza.

Capellani[33] riporta le statistiche che mostrano l’accesso ai dispositivi elettronici dei bambini americani di età inferiore agli otto anni:

«il 34% ha utilizzato uno schermo touch sotto i 12 mesi; il 36% ha usato un videogioco o un’app sotto i 24 mesi; il 98% ha utilizzato uno schermo touch sotto i 4 anni […]».

In Italia le percentuali non sono ancora così alte come negli Stati Uniti d’America, ma l’uso dei dispositivi digitali non è decisamente limitato alla sfera degli adulti, bensì vi sono molti bambini che li usano e, guardandosi un po’ intorno, tale fatto è visibile ovunque. Naturalmente, non sono i bambini che da soli decidono di usare il telefono cellulare multimediale poiché al di sotto di una certa età non sono in grado di agire da soli, ma sono i genitori che, sempre più presi dai loro vortici quotidiani, “scaricano” i propri figli ai dispositivi digitali per farli stare “tranquilli”. Una ricerca del febbraio del 2024 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy riporta che in Italia il 94% dei minori tra otto e sedici anni usa un telefono cellulare multimediale (il 68% ne possiede uno suo, il 28% l’ha ricevuto prima dei dieci anni e il 25% dopo gli undici anni) e sette su dieci tra gli otto e i dieci anni usano i social network e piattaforme streaming[34].

Per quanto riguarda i social network, Capellani[35] sottolinea come: «Facebook è la public company al mondo con un valore di mercato di 321 miliardi di dollari, ha solo 12.000 dipendenti (la General Motors, che ha un valore di mercato pari a un sesto di quello di Facebook, ha un numero di dipendenti 18 volte superiore), ha un fatturato di circa un miliardo di dollari a trimestre derivante da introiti pubblicitari (80%) e videogiochi online (20%)» e ancora: «L’elemento più contradditorio e meno considerato è che l’accesso ai social media è gratuito e nonostante ciò queste aziende sono ricchissime. Come è possibile? La risposta è molto semplice: se tu non paghi per il prodotto che usi, sei tu il prodotto!». Del resto a tutti saranno comparse pubblicità inerenti a qualcosa cercato su Google oppure i cosiddetti reel[36]inerenti ai video o contenuti maggiormente visti. Il problema è che i minori non hanno ancora gli strumenti per gestire una tale “invasione” e quindi diventano “prede” facili per tutto ciò che di negativo ne consegue.

Tra i giovanissimi, quindi non solo adolescenti ma anche bambini, sono oggi giorno diffusissimi anche i cosiddetti youtuber, con una maggioranza di utenti maschi; pubblicano video dei più svariati argomenti diventando poi “schiavi” dei like e del [finto] consenso da parte del pubblico. Tra le giovanissime, invece, spiccano come modelli d’imitazione le fashion blogger che, come scrive Capellani[37]: «[…] suggeriscono gli acquisti da fare, mentre altre propongono il proprio stile personale e altre ancora danno consigli pratici per curare il look. Il grande seguito di questi blog ha fatto sì che molti brand dell’industria della moda siano ormai soliti commissionare articoli alle blogger per pubblicizzare un prodotto». Sisti[38] afferma che in Italia ogni cento persone (tutte maggiorenni), il 2,22% fa l’influencer o ci prova e che secondo l’agenzia interinale Adecco l’influencer è stato elencato come il “lavoro” più ambito tra gli italiani nel 2023. L’influencer più famosa in Italia, Chiara Ferragni, seguitissima dalle bambine e dalle adolescenti con 24,8 milioni di follower su Instagram e 4,8 milioni su Tik Tok, ha chiuso il 2020 con un fatturato di 12,9 milioni di euro. Questa cifra da capogiro viene guadagnata senza un gran numero di dipendenti nella sua impresa, ma semplicemente usando la propria immagine per fare pubblicità[39] .

Un’altra attività molto diffusa soprattutto tra i bambini e adolescenti maschi, sono i videogiochi. In uno studio[40], in cui hanno contribuito anche l’Università di Padova e il CNR di Pisa, risulta che su 89.000 adolescenti tra 15 e 16 anni in 30 Paesi europei, un quinto è a rischio di diventare dipendente dai videogiochi compromettendo così la propria salute. In Italia esiste il 24% di tale rischio tra i ragazzi. Secondo le statistiche raccolte nel 2022 dal quotidiano Il Corriere della Sera, in Italia ci sono 24 milioni di videogiocatori (pari al 43% della popolazione).

I dati allarmanti, però, sono che il 3% dei giocatori ha un’età compresa tra i 4 e i 5 anni, il 10% tra i 6 e i 10 anni, il 9% tra gli 11 e i 14 anni e il 7% tra i 15 e i 17 anni[41]. Tutte queste attività online, come vedremo successivamente, causano immensi danni nei giovani. Per altro, molti di questi videogiochi presentano contenuti assolutamente non adatti ai bambini includendo una violenza notevole.

In una società votata alla materiale praticità come quella che purtroppo si presenta oggi, a farne le spese sono soprattutto i bambini. Essi vengono caricati delle aspettative, spesso troppo alte o semplicemente non adatte a loro, non solo dei genitori ma anche delle scuole. Benasayag e Schmit[42] a questo proposito scrivono: «I genitori, i professori e gli educatori cercano di indurre i giovani a imparare e a studiare. A questo scopo ripetono in modo più o meno esplicito un discorso che in realtà è una minaccia: “Se non studi a scuola, se non ti diplomi o non ti laurei, non troverai lavoro…”. Gli adulti temono davvero l’avvenire e quindi cercano di formare i loro figli in modo che siano “armati” nei suoi confronti. […] i genitori si disperano perché i loro figli non capiscono abbastanza in fretta che “è un mondo molto duro” e si inquietano perché non si “armano” […]» e ancora: «Così la nostra società diventa sempre più “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”». È proprio a causa di questa angoscia degli adulti della società d’oggi che i mezzi digitali hanno varcato anche il confine del luogo che dovrebbe essere, oltre alla casa, tra i più protetti per i bambini: la scuola.

Il consumismo presente nella società odierna spinge sempre maggiormente sulla competizione rendendola malsana per l’essere umano e sempre più “animalesca”. Il maestro Alessio Gordini della scuola Waldorf “La Cometa” di Milano, in una conferenza tenuta ad Ancona[43] proprio sul tema della competizione disse che essa è legata al mondo animale, poiché esiste quella “interspecifica”, legata alla quantità, ovvero tra specie diverse (dove vince il più “forte”, il più “veloce”, etc.) e la competizione “intraspecifica”, ovvero all’interno della stessa specie che, invece, è più legata alla qualità. Aggiunse, alla fine della conferenza, che l’unico modo sano e morale di competizione nell’essere umano è con se stessi poiché l’essere umano possiede un “Io” che l’animale non ha facendo parte, invece, di un’anima gruppo. Oggi, in cambio, in molti ambiti sociali (scuola, sport, costumi…) la competizione è diventata spietata e annientante. Essa coinvolge sempre di più i bambini che andrebbero tutelati e lasciati liberi di avere il tempo di poter esprimere se stessi. Invece, sono spesso indotti a seguire le orme di genitori che proiettano in loro i propri sogni svaniti oppure si trovano vittime delle pressioni di educatori frustrati o di modelli votati a foraggiare il consumismo. Purtroppo oggi anche lo sport lascia subentrare sempre prima l’agonismo e a noi maestri arrivano a scuola [elementare] bambini stanchi che svolgono allenamenti tre/quattro volte alla settimana e partite quasi tutte le domeniche; così anche la domenica diventa per loro giorno di pressione e competizione anziché essere un giorno di riposo, di condivisione e di una bella passeggiata all’aria aperta dove semplicemente si cammina per gustarsi il paesaggio e, soprattutto, per respirare. Camminare all’aria aperta, infatti, è un movimento molto diverso che non stare chiusi dentro una palestra a fare i soliti meccanici movimenti per rincorrere i primi posti in classifica.

La stessa corsa sfrenata è stata fatta entrare nelle scuole, a partire dalla scuola materna e, in alcuni casi, sin dall’asilo nido! Mi è capitato di vedere come alcuni asili nido privati richiedessero “l’intervento” di “scuole” private di lingua inglese (che, per esperienza personale, definirei più come aziende da profitto materiale che scuole) per portare l’inglese attraverso schermi TV ai bambini che a quell’età avrebbero bisogno solo di vivere un ambiente quieto e accogliente che ricordi il più possibile il focolare domestico. Inoltre, è risaputo che ormai negli asili pubblici i bambini dell’ultimo anno vengano indotti a iniziare a imparare a scrivere. Tutto questo anticipare significa togliere al bambino delle forze che dovrebbero invece essere impegnate a costruire il proprio corpo fisico. La pedagogia steineriana, invece ritiene di fondamentale importanza la maturità scolare; così, ogni bambino viene valutato da un medico antroposofo e dall’euritmista per verificare se effettivamente è pronto per la scuola.

Uphoff e Gilmore[44] dicono: «I bambini che non hanno ancora completato lo sviluppo, sì da essere in grado di corrispondere alle richieste della scuola, rimangono, a volte, svantaggiati per tutta la vita. Molti genitori e pedagoghi benpensanti, ma male informati, inseriscono troppo presto nel nostro sistema scolastico i bambini ancora giovani. Se s’inizia la scuola quando, per quel che concerne il proprio sviluppo, non si è pronti a farlo, la probabilità di non riuscire cresce in modo drammatico». Le conseguenze della scolarizzazione precoce non sempre si risolvono nel corso degli anni, ma talvolta rimangono anche oltre al periodo dell’infanzia e tra di esse troviamo il fatto che i bambini precocemente scolarizzati spesso non impugnano bene la penna, faticano a stare seduti a scuola e, in generale, spesso faticano a tenere il passo con i compagni durante tutto il corso non solo della prima classe ma anche di quelle successive.

La scuola pubblica, invece di investire sulla qualità e accoglienza delle scuole, copia modelli già sperimentati in altri Paesi del mondo inserendo dispositivi digitali. Spitzer[45] scrive: «Sono ormai numerose le aziende che producono portatili destinati specificamente agli alunni, con funzioni paragonabili a quelle dei normali laptop. L’OLPX XO-1 è stato progettato appositamente per ragazzi dei Paesi in via di sviluppo ed emergenti. […]». Questo progetto non ha funzionato perché ci si è resi conto che le situazioni scolastiche drammatiche di alcuni Paesi in via di sviluppo non hanno a che vedere con la mancanza di dispositivi digitali, bensì, come scrive Spitzer, alla carenza di insegnanti (spesso impreparati o mal pagati) e di infrastrutture scolastiche idonee. Inoltre, è stato dimostrato che i bambini che hanno avuto accesso a questi portatili non hanno ottenuto risultati migliori rispetto agli altri.

Anche il governo italiano, sin dal 2002, in connessione con la Strategia UE di Lisbona (2000), ha avviato una serie di iniziative volte alla “digitalizzazione della scuola”[46]. Esse, caratterizzate da un approccio tecnocentrico focalizzato sull’investimento in hardware, in due decenni hanno finanziato una capillare diffusione delle ICT negli istituti di ogni ordine e grado[47]. La visione alla base di questo percorso, ben evidenziata nella narrativa delle versioni del Piano Nazionale per la Scuola Digitale[48], ha poggiato su quelli che Delfino e Paglieri chiamano “due luoghi comuni”[49]: il primo, che la scuola italiana fosse indietro con la digitalizzazione (assunto plausibile, inizialmente), ed il secondo che questo divario digitale pregiudicasse l’apprendimento e la professionalizzazione degli studenti (assunto più problematico, che richiederebbe ulteriori qualificazioni).

Analogamente ad altri ambiti della Pubblica Amministrazione (dove però l’utente è l’adulto), le ICT sono state presentate come fattore abilitante dell’innovazione e – a mo’ di deus ex-machina – come strumento di rinnovo generalizzato nella scuola; non solo per tutte le attività di supporto (amministrative e logistico-organizzative), ma anche per la didattica, sic et simpliciter; con ciò contraddicendo una secolare letteratura di economia dell’innovazione – a tralasciare quanto detto dalle scienze umane – che vede l’innovazione come fenomeno complesso, in cui il ruolo ‘più’ abilitante è invece proprio quello dell’elemento “soft”, ossia il fattore umano ed organizzativo (in questo caso, chi lavora per e nella scuola). Peraltro, anche nelle edizioni successive del Piano (come in quella del 2015, connessa alla cosiddetta legge sulla “Buona Scuola”, n. 107/2015), quando la retorica tecnocentrica è stata smussata da riferimenti a obiettivi di formazione ed educazione al digitale, non sono state chiarite varie ambiguità definitorie e operative presenti nel progetto. Il Piano, in alcuni passaggi, pare rispecchiare finanche agende di soggetti incoerenti con il mondo della scuola e con la sua missione di ascensore sociale universale, oltreché di palestra di pensiero civico e democratico[50].

Ancora, il Piano del 2015 parla di competenze digitali senza specificare quali, tra le tante, vengono prese a riferimento per rispondere ai fabbisogni formativi del Paese; e questi ultimi non si riducono all’inserimento lavorativo, ma includono l’educazione all’uso critico (quindi, non “addicted”) dei media, che è essenziale per la vita sociale. Educazione mediale che, come rilevato anche da altri[51], è rimasta invece all’ombra dei progetti formativi. Inoltre, nel Piano si continua a parlare in modo indifferenziato di digitalizzazione della didattica scolastica, e (solo residualmente) di formazione degli insegnanti e educazione al digitale degli studenti, come se gli interventi e gli investimenti ivi previsti potessero essere declinati uniformemente attraverso tutti i cicli di istruzione.

Non stupisce, quindi, che nell’ultimo ventennio si sia avuta una diffusione indifferenziata del nuovo paradigma digitale tra i cicli scolastici, peraltro non senza sprechi di denaro, costituzione di monopoli sulle forniture e perduranti ritardi geografici, come monitorato dal costituito Osservatorio Scuola Digitale. Come da attese[52], anche la scuola primaria è stata “colonizzata” da dispositivi elettronici come tablet, portatili e computer, che servono ad accedere a risorse in rete, svolgere attività e a completare compiti; software educativi che servirebbero a facilitare l’apprendimento di alcune materie; piattaforme di apprendimento in rete e le lavagne interattive multimediali (LIM). Di fatto, lo Stato ha reso obbligatoria l’introduzione delle LIM in tutte le scuole a partire dalla primaria alla secondaria di secondo grado.

I sostenitori della LIM, come dice Spitzer, dicono che fa risparmiare tempo perché il bambino o ragazzo non deve più copiare le informazioni dalla lavagna e ciò gli lascerebbe più tempo per esprimere la sua creatività e spontaneità. Tuttavia, non è proprio così; innanzitutto scrivere con la penna elettronica su una lavagna virtuale non è la stessa cosa che scrivere con una bella penna stilografica o con un gesso su una lavagna vera. Esteticamente la scrittura virtuale sulla LIM non è bella ed è anche molto più difficoltosa per un bambino (io, ad esempio, quando ho lavorato nella scuola pubblica non la usavo mai perché quella che appariva su quello schermo non era la mia calligrafia!). Qualche anno fa fui invitata a tenere alcune lezioni in lingua inglese in una scuola primaria di Rimini, precisamente in una quarta e una quinta.

I maestri mi offrirono l’aula provvista di LIM e computer ma io ringraziai e dissi che mi bastava uno spazio, l’atrio andava benissimo, e per il resto avevo una pallina cucita a mano da me, una campanella in rame fatta a mano, delle carte disegnate a mano da me. Portai ai bambini dei giochi in inglese e insieme cantammo delle belle canzoni. Durante la ricreazione in uno di questi giorni quando ero ospite di questa scuola, notai come per richiamare in aula i bambini di seconda classe la maestra mise ad alto volume sul computer della LIM una canzone del cantante spagnolo Alvaro Soler e si mise a ballare con tutti i bambini che la seguivano agitatissimi. Il suono della musica dalle casse del computer non si può di certo paragonare al suono caldo e vivo di una voce umana o di un flauto; infatti, io per richiamare i miei alunni o per far smettere il chiacchiericcio che magari si formava mentre disegnavano, intonavo un bel canto e in men che non si dica i bambini venivano e si mettevano a cantare anche loro.

Purtroppo, e nel ciclo primario e nel ciclo secondario (dove pure ci si attenderebbero benefici da un processo di digitalizzazione e di educazione al digitale “ben temperato”), i risultati sono stati deludenti, e di certo inferiori alle criticità riscontrate (per cui si rimanda al paragrafo 4). Per quanto riguarda gli effetti delle dotazioni di ICT sugli apprendimenti curriculari (ad es., le performance nei test INVALSI di italiano e matematica), gli studi empirici mostrano nel complesso effetti nulli o, quando statisticamente significativi, di entità trascurabile,[53] che certo non giustificano l’entità dei fondi ricevuti, destinabili ad usi più meritori e meno proni all’obsolescenza (si pensi all’annosa questione del degrado e salubrità degli edifici scolastici). Il discorso si fa più complesso quando si va ad analizzare la relazione tra dotazione di ICT e competenze digitali, alla luce delle difficoltà metodologiche di loro misurazione. Anche qui, i pochi studi disponibili mostrano dei benefici in termini di maggiori abilità operative (le più obsolescenti) conseguenti alla mera dotazione ICT, mentre la stessa dotazione da sola non supporterebbe – in mancanza di iniziative formative specifiche, tutt’ora scarse – le competenze sui contenuti digitali ed il loro uso critico (educazione mediale).

Infine, studi più recenti introducono un’ipotesi teorica di estremo interesse per il nostro tema, anche se alquanto ‘scomoda’ per le politiche digitali e di inclusione sociale, ossia che la precocità digitale (specie quella su smartphone) sia antagonista alle performance scolastiche, e finisca per aumentare le stesse diseguaglianze sociali[54]. Nel frattempo, nuovi fronti e sfide si aprono con l’introduzione di nuovi tipi di ICT. Dall’ottobre 2024 il Ministro dell’Istruzione G. Valditara ha avviato a Roma un progetto di sperimentazione dell’“Intelligenza Artificiale” nelle scuole secondarie di I e II grado; esso avrà una durata di due anni, coinvolgerà istituti di Lazio, Lombardia, Toscana e Calabria[55].

Mentre il governo italiano prosegue l’inserimento delle nuove tecnologie digitali nelle scuole, alcuni paesi del Nord Europa, come Danimarca e Svezia, hanno iniziato a rendersi conto che tali tecnologie inibiscono, anziché incentivare, l’apprendimento dei giovani nelle scuole. Nel 2023 il ministro svedese per le scuole Lotta Edholm iniziò a diminuire i dispositivi digitali nelle scuole, che in Svezia erano stati diffusi persino negli asili nidi, per tornare a dare spazio alla lettura su libri, alla scrittura a mano e al far di conto senza mezzi tecnologici. Edholm si era resa conto che l’introduzione massiccia delle nuove tecnologie creava un declino nelle competenze basiche (lettura, scrittura, far di conto) degli alunni anziché un miglioramento. L’ente Progress in International Reading Literacy Study (PIRLS) notò, infatti, in uno studio svolto nel 2023 come ci fu un declino tra il 2016 e il 2023 nelle competenze di lettura tra i bambini svedesi di quarta elementare[56].

4. I danni delle nuove tecnologie sul minore

Il tempo trascorso davanti allo schermo causa ai bambini e ai ragazzi numerosi danni sia fisici che psicologici. Capellani[57] riporta gli effetti fisico-corporei dell’uso smisurato delle tecnologie digitali:

  • problemi muscolo-scheletrici (cervicalgie, lombalgie, etc.);
  • CVS (Computer Vision Syndrome): irrigidimento del cristallino nel bulbo oculare e miopia;
  • attenuazione delle capacità uditive;
  • obesità e diabete[58];
  • esposizione a radiazioni elettromagnetiche.

Nel 2016 al Policlinico Gemelli di Roma è stato aperto il Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicologia da web per far fronte alle nuove “psicopatologie digitali”. Capellani[59] trascrive la catalogazione di queste nuove patologie svolta dall’Osservatorio Nazionale Adolescenza nel 2017:

  • vamping: ragazzi che rimangono svegli durante la notte a navigare su Internet e a chattare[60];
  • FOMO (Fear of Missing Out): disturbo ossessivo compulsivo che obbliga a stare sempre connessi per paura di rimanere “tagliati fuori” da eventi del mondo digitale;
  • like addiction: per molti giovani l’autostima dipende da quanti like ricevono sulle foto e contenuti che pubblicano sulle loro bacheche digitali dei social network;
  • nomofobia (no-mobile-phone): paura e ansia di rimanere senza telefono con connessione Internet;
  • narcisismo digitale: la tendenza che porta a scattare numerosi autoscatti (detti selfie) per pubblicarli subito nei propri social network[61];
  • challenge o sfide sociali: dove si è chiamati a partecipare a fare sfide[62];
  • hikikomori: persone che si auto-recludono rimanendo in contatto con il mondo esterno solo attraverso Internet.

Gran parte di queste nuove patologie digitali scaturisce da una dipendenza dallo strumento. Qualche anno fa mi accorsi che un mio alunno di seconda elementare iniziava ad assumere un comportamento insolitamente arrogante e tendeva a non ascoltare più i racconti che portavo alla classe (quando fino a quel momento li ascoltava con gusto). Dopo un colloquio con i genitori, emerse che il bambino, a casa, portava con sé il telefono cellulare multimediale ovunque, persino in bagno! Quando finalmente i genitori provarono a togliergli l’accesso al telefono, il bambino ebbe delle reazioni molto simili alle crisi di astinenza, nel suo caso con pianti isterici ed aggressività. Da maestra ho potuto constatare che si capisce dal comportamento dei bambini quando a casa guardano tanta televisione, usano telefoni cellulari multimediali o giocano tanto ai videogiochi, ad esempio quando: fanno tanti movimenti scattosi, hanno un linguaggio un po’ “robotico”, non ascoltano, sono irrequieti, hanno repentini sbalzi d’umore; giusto per citarne alcuni.

Nella mia esperienza di maestra steineriana, ripeto spesso ai genitori che ci vuole coerenza con quello che vivono i bambini a scuola e quello che vivono a casa. Pertanto, è inutile lasciare un bambino in una scuola dove si segue la pedagogia steineriana, quindi dove il bambino impara soprattutto attraverso l’esperienza e l’arte e, quindi, senza l’uso di LIM o tecnologie, se poi a casa gli lasciano libero accesso a telefoni cellulari multimediali, videogiochi e altri mezzi digitali. Capellani[63] scrive: «La struttura e le caratteristiche del cervello dipendono da due fattori: uno ereditario e l’altro dovuto alle esperienze che facciamo nella nostra vita […]». Queste esperienze che si fanno sono percepite dal cervello come stimoli che poi creeranno nuovi collegamenti tra i neuroni (sinapsi). Quindi, è proprio con l’esperienza che l’essere umano impara di più (e più volentieri); ma se io do ad un bambino strumenti digitali che sintetizzano tutti i contenuti, egli si occuperà di essi solo superficialmente, le sue sinapsi si attiveranno di meno e di conseguenza imparerà di meno.

Secondo Rudolf Steiner l’età “educabile” va dalla nascita ai 21 anni; dopo quest’età non si parla più di educazione, ma di autoeducazione. I settenni “educabili”, quindi, sono i primi tre. Nel primo settennio il bambino vive soprattutto nel volere ed è impegnato ad edificare il proprio corpo fisico. In questo periodo il bambino è tutto “organo di senso”, egli è completamente immerso nell’ambiente in cui vive e impara per imitazione. Avrà quindi bisogno di adulti, che svolgono azioni sane, da imitare; essi, infatti, imitano gli adulti nel gioco. In una società dove l’adulto è immerso nel digitale e trascorre molto tempo al computer o al telefono cellulare multimediale, che modello imiteranno i bambini? Mi è capitato che alcune colleghe maestre d’asilo mi dicessero che i bambini di oggi arrivano che non “sanno più giocare”, ovvero, che anziché imitare azioni sane come cucinare, lavorare la terra, prendersi cura del prossimo, imitavano adulti al telefono, al computer, al bar etc.

Inoltre, nel primo settennio i bambini sono impegnati nello sviluppo dei cosiddetti “sensi basali”[64]: il senso del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio; sensi che a loro volta si collegano con i sensi superiori, ovvero, il senso del tatto si collega al senso dell’io dell’altro uomo, il senso della vita al senso del pensiero dell’altro uomo, il senso del movimento al senso della parola altrui e il senso dell’equilibrio al senso dell’udito. Capellani[65] a questo proposito dice: «il pensiero logico-matematico può manifestarsi in modo completo nel secondo settennio se nei primi anni di vita i sensi di equilibrio e movimento sono stati nutriti e curati adeguatamente». Non è difficile immaginare il perché computer, tablet, telefoni cellulari multimediali non nutrano adeguatamente questi sensi nel bambino piccolo; essi fanno appello solo alla sua sfera percettiva, visiva e uditiva trascurando tutto il resto e lasciando un vero e proprio vuoto.

Negli anni è sorta anche la domanda di quanto l’uso da parte dei bambini di queste nuove tecnologie sia responsabile dell’aumento dei disturbi specifici di apprendimento (DSA). Un grafico del Ministero dell’Istruzione e del Merito[66] mostra come dal 2011 al 2023 ci sia stato un significativo aumento degli alunni con DSA. Anche gli alunni che presentano sindromi ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) sono in aumento e rappresentano oggi l’1% di tutta la popolazione scolastica. Il senso della vita, disse Steiner (1924) nelle sue conferenze legate alla sfera della pedagogia curativa, racchiude in sé i sette processi vitali[67]. Riporterò qui, in modo molto sintetico, quanto detto sui processi vitali dalla dottoressa Anna Maria Pino, medico antroposofo, durante la sua conferenza tenuta nel giugno del 2022 rivolta ai maestri Waldorf durante la settimana estiva di aggiornamento[68].

  • Primo processo vitale: respirare (si intende prima con i sensi e poi con i polmoni) a cui sono collegate capacità di attenzione;
  • Secondo processo vitale: produzione di calore a cui sono collegate capacità di interesse;
  • Terzo processo vitale: nutrire, collegato alla facoltà di apprendere;
  • Quarto processo vitale: secernere, collegato alle capacità di distinguere;
  • Quinto processo vitale: mantenere, collegato alle capacità di memoria;
  • Sesto processo vitale: crescere, collegato alla capacità di elaborare;
  • Settimo processo vitale: riprodurre, collegato alla capacità di creatività.

L’educatore, che per Steiner sono sia i maestri che i genitori, ha il compito di far sì che questi processi si sviluppino e funzionino adeguatamente. Il “malfunzionamento” anche solo di uno di questi processi può causare l’insorgenza di difficoltà di apprendimento. La maestra d’asilo Luciana Pederiva[69] scrive: «L’impatto della tecnologia nel periodo di formazione dell’essere umano si rivela dannoso proprio perché il bambino è nella fase di sviluppo dei suoi organi, in particolare del cervello». Capellani[70] dice che pur non essendo ancora dimostrata una correlazione tra l’uso sempre più frequente delle nuove tecnologie e l’aumento delle difficoltà di apprendimento e di comportamento, sicuramente non si aiuta lo sviluppo organico sano del bambino attraverso l’alterazione della sfera percettiva, la non attenzione al sano sviluppo dei sensi basali e il non rispetto dei suoi ritmi fisiologici.

L’uomo, grazie anche alla sua posizione eretta, è l’unico che ha il dono della parola. L’uso e abuso di questi nuovi mezzi tecnologici ha seriamente compromesso il linguaggio dei bambini a partire dai tre anni in su ma anche degli adolescenti. Patzlaff[71] scrive: «Non curare il linguaggio non consente di avere parole per esprimere le proprie emozioni e questo porta nei bambini facilmente ad aggressività, incidendo quindi sulla socialità». Il bambino impara a parlare sentendo altre persone che gli parlano; ma se i genitori di oggi sono troppo occupati a stare incollati davanti al televisore o allo schermo del telefonino, il dialogo con i propri bambini diminuirà drasticamente. Sempre più genitori oggi giorno “scaricano” i propri figli davanti agli schermi (televisore, telefono cellulare multimediale e tablet) togliendogli così tempo per il gioco libero (che lo aiuta a stimolare la fantasia che un domani sarà il suo pensiero libero), il dialogo e la capacità di movimento. Di conseguenza si arriva a causare nel bambino una grave carenza nello sviluppo del linguaggio; tale carenza spesso causa ritardi nell’ambito della motricità e nella percezione sensoriale.

I ricercatori Zimmermann e Christakis[72] riuscirono a dimostrare il nesso fra il consumo di televisione nell’infanzia e lo sviluppo, poi, di deficit linguistici. Il linguaggio, inoltre, è vivente e scaturisce da fattori come il calore umano e nessuna macchina o microfono potrà mai sostituirlo; io, ad esempio, non riascolto mai la mia voce sui messaggi vocali perché non la riconosco come la mia voce! Così, c’è proprio da chiedersi come fanno i genitori a non rendersi conto di quanto possa essere dannoso lasciare i propri figli attaccati per ore agli schermi.

Quando lavoravo in una “scuola/azienda” d’inglese, tra i vari, vi era un bambino di sei anni che arrivava nella mia aula con gli occhi spalancati e correndo ovunque con le mani unite a mo’ di pistola dicendo che doveva sparare agli zombie. L’unico modo che funzionava per tranquillizzarlo era prenderlo delicatamente per le mani, abbassarmi in modo da avere il suo volto di fronte al mio e dirgli che si trovava nell’aula d’inglese e che adesso avremmo cantato una canzone e poi disegnato; anche disegnare e colorare riusciva a calmarlo.

Parlando con le colleghe, ho scoperto che questo bambino veniva lasciato per ore di fronte allo schermo a giocare a videogiochi, evidentemente, molto violenti. Questo caso è l’esempio vivente che giocare ai videogiochi può seriamente compromettere la sfera percettiva dei bambini arrivando a non distinguere più il mondo reale da quello virtuale; a volte arrivando anche a commettere crimini o fatti gravi senza nemmeno rendersi conto. Un altro caso mi fu raccontato da una mia collega nella scuola di formazione per insegnanti Waldorf di Oriago (Venezia): mi disse che un bambino di due anni del campo estivo dove lavorava aveva visto un uccellino posato su un albero e poi era andato vicino allargando il pollice e l’indice come si fa su uno schermo digitale per allargare l’immagine. I giochi più in voga dai bambini e preadolescenti spesso sono giochi vietati ai minori di 18 anni ma genitori e nonni (ignari?) glieli regalano. I videogiochi causano, inoltre, dipendenza (con il meccanismo dei livelli) e a volte anche disturbi neurologici seri come le crisi epilettiche.

È curioso come proprio il fondatore della Apple Steve Jobs o di Meta-Facebook Mark Zuckerberg o della Microsoft Bill Gates non abbiano permesso ai figli di usare precocemente le proprie creazioni tecnologiche. Capellani[73] riporta come Gates abbia affermato in un’intervista nella rivista Mirror che non ha dato telefoni cellulari ai figli prima del compimento dei 14 anni, che avevano un orario in cui spegnerli per evitare di disturbare il sonno (altro danno causato dalle nuove tecnologie) e che a tavola erano proibiti per non togliere tempo e importanza alla comunicazione in famiglia. L’uso dei social network da parte dei giovani causa anche danni psicologici e sociali come il cyberbullismo, dove ragazzi e ragazze diventano “leoni da tastiera” e feriscono a parole altri coetanei e coetanee con conseguenze a volte anche gravi. Questo stare dietro allo schermo ha fatto anche diminuire molto il senso di responsabilità nei giovani di oggi.

Angelo Branduardi nella sua canzone Vanità di vanità cantava: «Se ora guardi allo specchio il tuo volto sereno non immagini certo quel che un giorno sarà della tua vanità». Le immagini “prefabbricate” e false di “corpi perfetti” che appaiono sui social media danno alle ragazzine l’idea che occorre essere sempre perfette e truccate per essere accettate; quindi, sempre più bambine si truccano e quel che lascia senza parole è che molto spesso le madri alzano le braccia arrese o addirittura le incoraggiano a farlo! Così anche le bambine adesso vengono inserite nella spirale della vanità; vanità intesa come “l’essere vanitoso” ma anche come “vuoto”.

5. Una proposta educativa

Tutta la proposta educativa della scuola steineriana è basata su una profonda conoscenza dell’essere umano e il rispetto delle sue tappe evolutive. Quindi anche nel caso dell’uso dei dispositivi digitali non si dice di demonizzarli e bandirli completamente, ma occorre tenere bene presente che esiste un’età prima della quale non andrebbero usati. Prima si accennava a come Steiner parla dei primi tre settenni come i settenni “educabili”; nel primo settennio il bambino vive soprattutto nella volontà ed è tutto organo di senso, nel secondo vive soprattutto nel sentire e nel terzo inizia ad elaborare un certo pensiero concettuale. Capellani[74] osserva, giustamente, che per guidare un’automobile bisogna avere almeno 16 o 18 anni (dipende dal Paese) e bisogna fare un corso con tanto di esame teorico e pratico. Egli dice, quindi, che i ragazzi del terzo settennio dovrebbero conoscere le tecnologie digitali per poterle usare con più maturità e coscienza.

I bambini del primo settennio hanno bisogno di un ritmo; per loro (e anche per le età successive) il ritmo è vita ed è salute. Negli asili steineriani, quindi, c’è una precisa scansione del tempo trascorso proprio per garantire questo ritmo salutare. I bambini, inoltre, svolgono attività vere e sensate come, ad esempio, fare il pane che poi si mangerà a merenda e viene lasciato ampio spazio al gioco libero (sia dentro l’asilo che fuori all’aria aperta) dove il bambino sarà libero di sperimentare la sua fantasia. Il materiale usato, proprio perché nel primo settennio si stanno educando i sensi basali incluso il tatto, è materiale sano (legno, lana, cotone, etc.). Il maestro d’asilo deve, inoltre, parlare poco e bene e curare i propri movimenti e gesti perché parola e gesti saranno imitati dal bambino che a quest’età vive nell’imitazione. Le fiabe sono un altro strumento fondamentale che usa il maestro del primo settennio; il linguaggio delle fiabe contiene in sé una saggezza che permette al bambino di farsi delle immagini viventi. Il maestro d’asilo racconta (non legge) la stessa fiaba per anche quattro settimane perché i bambini del primo settennio amano la ripetizione. I racconti sono per i bambini vero e proprio nutrimento dell’anima. Ricordo come i miei alunni, quando erano in prima classe, ascoltavano le fiabe che raccontavo: erano immersi nel racconto con tutti loro stessi e qualcuno se la gustava proprio con la linguetta, come si fa come quando c’è una buona pagnotta calda di fronte. Infine, negli asili steineriani non c’è alcuna attività volta ad anticipare il bambino proprio perché si rispettano i suoi tempi e la maturità scolare.

Il bambino del secondo settennio sta sviluppando prevalentemente il suo sentire quindi, a scuola è importante portare le varie discipline scolastiche in modo artistico, vivente ed esperienziale. Si guardi ad esempio come si porta la scrittura in stampato maiuscolo in prima elementare: io avevo inventato per i bambini la storia di Martino il bambino che non si toglie mai il cappellino e, come suggerisce Steiner, avevo portato prima tutte le vocali poi le consonanti (non in ordine alfabetico) con l’elemento artistico. Le vocali sono collegate al mondo interiore dell’essere umano e quindi avevo disegnato delle scene che esprimessero le emozioni corrispondenti alle singole vocali (la A stupore e meraviglia, etc.). Le consonanti, invece, sono legate al mondo esterno, quindi ho portato le consonanti con l’immagine che ricordasse la lettera vera e propria (ad esempio: per la S avevo disegnato uno scoiattolo la cui coda aveva la forma di una S). Gli strumenti sono basici e non occorrono tecnologie; ho sempre avuto una lavagna in ardesia dove potevo esercitarmi con il disegno con il gesso e intanto donare ai bambini delle immagini che potessero essere belle. I bambini non usano, inoltre, libri di testo ma scrivono e disegnano su quaderni con pagine bianche proprio per aiutarli a sviluppare ed educare la propria volontà.

Nel corso delle classi della scuola primaria i racconti sono sempre di fondamentale importanza; in questi anni ho potuto constatare che i racconti che portavo e che porto sono vero e proprio nutrimento e respiro per i bambini ed è per loro un momento immancabile. Vi sono temi principali dei racconti che si portano nelle classi delle scuole steineriane: in prima classe, essendo appena usciti dall’asilo, raccontiamo le fiabe; in seconda classe si raccontano le favole di Esopo e le biografie dei Santi proprio perché i bambini a quest’età iniziano a sperimentare alcune polarità; in terza classe i bambini iniziano ad avvicinarsi a quello che nella nostra pedagogia si chiama “passaggio del Rubicone” dove i bambini iniziano ad avere un barlume di coscienza e allora si raccontano le vicende dell’Antico Testamento[75]; in quarta classe si portano i racconti della mitologia nordica (Edda e Kalevala) e molte poesie con allitterazioni; e infine, in quinta si portano i racconti della mitologia greca e delle altre antiche civiltà precedenti (antica India, antica Persia, antica Mesopotamia e antico Egitto).

Anche le discipline delle scienze naturali vengono portate con delle immagini raccontate; ad esempio, quando ho portato la zoologia in quarta classe facevo prima chiudere gli occhi ai bambini e li “trasportavo” con le immagini nell’ambiente dell’animale che andavamo a studiare descrivendo immagini, suoni e profumi. Con i bambini del secondo settennio è completamente inefficace fare appello solo alla sfera del pensare semplicemente perché non sono ancora lì. In tutte le classi si dà ampio spazio, quindi, alle arti plastico-pittoriche (disegno, pittura, modellaggio con la cera e poi con la creta) sempre legate a ciò che si sta portando nelle altre materie e alle arti musicali-linguistiche (lingue straniere che sono due sin dalla prima, solo orali fino alla terza e orali e scritte dalla quarta in poi e musica, disciplina fondamentale a cui bisognerebbe dare ampio spazio).

L’essere umano è l’unico che ha gli arti superiori (braccia e mani) indipendenti; in prima classe, prima di iniziare a scrivere (grande anelito dei bambini di prima) avevo chiesto ai bambini cosa si può fare con le mani. L’intellettualismo precoce porta i bambini, oltre alle conseguenze già citate, a non essere più abili con le proprie mani. Le mani sono troppo uniche e importanti da ridurre solo a compiere azioni futili come strisciare uno schermo! Esse possono dare carezze, scrivere (quanto è bella la calligrafia manuale!), piantare semi, impastare, cucinare, ricamare, lavorare a maglia, cucire e molte altre ancora. Educare i più giovani a lavorare con le mani li aiuta a sviluppare in modo sano i sensi basali che sono collegati ai sensi superiori, ovvero quelli che permettono di relazionarsi socialmente con gli altri. Nelle scuole Waldorf, quindi, i bambini iniziano il lavoro manuale sin dall’asilo. Attualmente sto insegnando in una quinta classe e, siccome stiamo conoscendo l’antica Grecia, i bambini avranno la possibilità di andare a Paestum a partecipare alle Olimpiadi (proprio come erano nell’antica Grecia con discipline come il lancio del giavellotto, del disco, etc.). Essi saranno vestiti con tuniche uguali a quelle degli atleti greci di quel tempo e se le stanno cucendo loro da soli a mano con il punto macchina da me insegnato.

Gli esempi sarebbero ancora moltissimi ma, per motivi di spazio, per ora mi fermo qui. Concludo dicendo che per aiutare questi bambini sicuramente bisogna curare anche la loro alimentazione e portarli a camminare; camminare al mare, in montagna, in collina perché hanno bisogno di muoversi, di respirare, di esplorare, di sperimentare, di vivere.

6. Conclusioni

La progressiva diffusione dei mass e dei social media in Occidente ha sollevato riflessioni critiche e studi sul loro impatto, sin dall’epoca della TV. Di fronte alla dilagante criminalità, evidente soprattutto in Nordamerica, per settanta anni la letteratura ha esplorato temi difficili, come quello della relazione causale tra contenuti multimediali violenti e comportamenti aggressivi, portando crescenti evidenze a supporto di una più stringente regolazione dei contenuti e dell’uso sociale dei mezzi di comunicazione (oggi, ICT). Altri hanno rilevato il potere di trasformazione cognitiva irreversibile delle abilità umane che conseguirebbe all’abuso mediale, e il suo spiazzamento di lettura, scrittura e ragionamento astratto. Ciò pregiudicherebbe l’attitudine all’analisi, il senso critico e più in generale le capacità di giudizio dell’Homo Sapiens, degradato ad un più manipolabile Homo Videns[76]. Per questo ed altro, vari esperti (anche pratictioner) sono diventati media-pessimisti, auspicando l’eliminazione del medium dalle famiglie e dalla società, nella convinzione che detto media parrebbe non riformabile o regolabile[77]. Purtroppo, nonostante le cogenti motivazioni scientifiche, nessuna proposta di regolazione dei media tradizionali (ossia di tipo “command and control”) è andata in porto, probabilmente per le forti resistenze dell’industria e della sua vocazione al profitto “sopra tutto”; e magari anche per l’influsso di altre agenzie elitarie interessate al restringimento del dibattito e degli spazi di democrazia. E questo è successo nonostante le numerose autorevoli voci a supporto di una regolazione “esterna”. Ad esempio, teorici del pensiero liberale e della “società aperta” come il filosofo Karl Popper (che certo non possono essere tacciati di cultura censoria o di statalismo ingerente) hanno proposto perfino una “patente per far TV”, ossia un sistema ad evidenza pubblica per il controllo e la revoca dell’autorizzazione ad operare nel settore multimediale, che potesse contrastare la produzione e diffusione di contenuti violenti e inadatti ai minori[78]. Proposte che magari oggi andrebbero riattualizzate con nuove forme organizzative e regolatorie più efficaci, ma che mantengono intatta la loro originaria giustificazione educativa ed etica.

Le sfide educative e l’emergenza di violenza e criminalità rimangono irrisolte e anzi cangianti, come ci ricordano le odierne esplosioni di bullismo, disagio giovanile, disabilità e disturbi specifici dell’apprendimento. Nel frattempo, la società ha cambiato struttura socio-demografica (famiglie mono-nucleari, aumento dell’occupazione femminile, impoverimento del ceto medio e popolare). Le famiglie, abbandonate dal policy-maker alla loro grande responsabilità educativa, si trovano sempre più sguarnite di soldi e risorse di fronte alle potenti lusinghe delle tante baby-sitter digitali di cui si è riempita la società occidentale. A distanza di decenni, ci troviamo ancora senza presidi efficaci di regolazione di media e contenuti, mentre questi ultimi aumentano di numero e forza di impatto. Come se queste sfide non bastassero, se ne aggiungono altre di carattere contestuale, poste dalla più difficoltosa coesione di una società globalizzata e multietnica, foriera di maggiori occasioni di scontro e conflitto culturale.

L’ultimo passaggio critico (perché affrettato) è stato quello dell’entusiastica spinta alle ICT impressa nella scuola pubblica sin dal primo livello della scuola dell’infanzia e dell’obbligo. Essa, anche in Italia, si è materializzata in modo repentino e prevalentemente burocratico, sull’onda di un’acritica adesione a tendenze internazionali e di una vuota retorica delle “magnifiche sorti e progressive” del digitale a scuola, e senza un serio dibattito istruttorio – scientifico e politico. Ci siamo quindi trovati con il digitale “spalmato” ed imposto in attività quotidiane (e.g., il rapporto con la Pubblica Amministrazione), ed in importanti agenzie educative (famiglie, scuola e corpi sociali intermedi) senza che fossimo preparati alla gestione dei molti nodi che le ICT fanno venire al pettine, iniziando dai minori e dagli anziani.

Di fronte a queste sfide epocali, il presente contributo si situa nel solco della tradizione dello scienziato sociale “utile” e socialmente impegnato, come auspicato dall’economista Giorgio Fuà[79]. Di fronte alle intemperanze sperimentali dell’attuale modello di “digitale precoce”, questo lavoro presenta l’esperienza educativa dell’approccio steineriano alle ICT. Esso, lungi dal demonizzare le tecnologie, ne studia il campo di fisiologica applicabilità per ogni fase dell’età evolutiva, e ne propone un’introduzione più graduale e temporalmente posticipata: ciò avviene all’inizio “del terzo settennio”, età in cui anche le ICT possono diventare un utile strumento di apprendimento individuale e di relazione interpersonale. Così facendo, si evita di spiazzare la formazione delle abilità individuali di base, che saranno poi quelle che aiuteranno il minore a gestire con criticità le ICT, evitandone l’abuso ed i fenomeni di dipendenza a cui stiamo invece massivamente assistendo. Tutto questo, attendendo il Godot della regolazione pubblica…

Bibliografia e sitografia

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~~~~~~~

note

[1] Parsons P.R., Frieden R.M., The Cable and Satellite Television Industries, Allyn, Boston, MA, 1998.

[2] Nicita A., Silva F., Ramello G., La nuova televisione: economia, mercato regole, Il Mulino, Bologna, 2008.

[3] Lanham R.A., The economics of attention: Style and substance in the age of information, University of Chicago Press, Chicago, 2006.

[4] Matteucci N., Standards, IPR and digital TV convergence: theories and empirical evidence, in Lugmayr A., Dal Zotto C., Media Convergence Handbook, Vol. 1, Springer, New York, 2016, pp. 203-230.

[5] European Commission, Reviewing the Interoperability of Digital Interactive Television Services Pursuant to Communication COM (2004) 541 of 30 July 2004, Communication, n. 37 final, 02/02/2006; Matteucci N., Interoperability provision in NGC: the case of Italian DTV, in info, 11, 6, 2009, pp. 30-50.

[6] Nicita A., Silva F., Ramello G., La nuova televisione, cit.

[7] ISTAT, Tempo libero e partecipazione culturale: tra vecchie e nuove pratiche, 2022.

[8] Vogel H. L., Entertainment Industry Economics. A Guide for Financial Analysis, Cambridge University Press, Cambridge, 2001.

[9] Rysman M., The economics of two-sided markets, in Journal of Economic Perspectives, 23, 3, 2009, pp. 125-143.

[10] Anche nel mercato della TV il funzionamento dei due versanti – mercato dell’audience e quello della raccolta pubblicitaria – è connesso ed indisgiungibile. Nel primo versante partecipano le reti e gli spettatori, che scelgono i programmi TV (input) e forniscono le metriche di audience (output). Queste ultime sono gli input venduti dietro corrispettivo nel mercato della raccolta pubblicitaria, dove partecipano le reti, le loro concessionarie di pubblicità e gli inserzionisti, i quali finanziano indirettamente la produzione di programmi TV e gli altri costi operativi.

[11] Nicita A., Silva F., Ramello G., La nuova televisione, cit.

[12] Condry J., The psychology of television, Routledge, Londra, 1989.

[13] Idem.

[14] Brzezinski Z., Il mondo fuori controllo: gli sconvolgimenti planetari all’alba del XXI secolo, Longanesi, Milano, 1993, p. 74.

[15] Per un’ipotesi in questo senso si rimanda a Popper K.R. (a cura di Giancarlo Bosetti), Cattiva maestra televisione, Marsilio Editori, Venezia, 2002, p. 70.

[16] Bushman B.J., Violence and sex in television programs do not sell products in advertisements, in Psychological science, 16, 9, 2005, pp. 702-708.

[17] Strasburger V.C., Wilson B.J., Television violence: Sixty years of research, in Gentile D.A. (a cura di), Media violence and children: A complete guide for parents and professionals (2 ed.), Praeger/ABC-CLIO, Santa Barbara, CA, 2014, pp. 135-177.

[18] Surgeon General’s Scientific Advisory Committee on Television, Social Behavior, & United States Office of the Surgeon General, Television and Growing Up: The Impact of Televised Violence. Report to the Surgeon General, United States Public Health Service, National Institute of Mental Health, Maryland, 1972.

[19] Strasburger V.C., Wilson B.J., Television violence, cit., p. 139.

[20] National Institute of Mental Health, Television and Behavior. Ten Years of Scientific Progress and Implications for the Eighties. Vol. I-II, Maryland, 1982.

[21] Centerwall B.S., Television and violence: The scale of the problem and where to go from here, in Journal of the American Medical Association (JAMA), 267, 22, 1992, pp. 3059-3063.

[22] Ad esempio: Anderson C.A., Gentile D.A., Buckley K.E., Violent video game effects on children and adolescents: Theory, research, and public policy, Oxford University Press, Oxford, 2007.

[23] De Lisi M., Vaughn M.G., Gentile D.A., Anderson C.A., Shook J.J., Violent video games, delinquency, and youth violence: New evidence, in Youth Violence and Juvenile Justice, 11, 2 2013, pp. 132-142.

[24] Browne K.D., Hamilton-Giachritsis C., The influence of violent media on children and adolescents: a public-health approach, in The Lancet, 365, 9460, 2005, pp. 702-710.

[25] Carpenter D., Moss D.A. (a cura di), Preventing regulatory capture: Special interest influence and how to limit it, Cambridge University Press, Cambridge, 2014. OECD, Preventing Policy Capture: Integrity in Public Decision Making, OECD Public Governance Reviews, OECD Publishing, Paris, 2017.

[26] Oreskes N., Conway, E.M., Merchants of doubt: How a handful of scientists obscured the truth on issues from tobacco smoke to global warming, Bloomsbury Publishing USA, New York, NY, 2011; Dirindin N., Rivoiro C., Luca D.F., Conflitti di interesse e salute, Il Mulino, Bologna, 2018.

[27] Condry J., Thief of Time, Unfaithful Servant: Television and the American Child, in Daedalus, 122, 1, 1993, pp. 259-278.

[28] Bruni L., Stanca L., Watching alone: relational goods, television and happiness, in Journal of Economic Behavior & Organization, 65, 3-4, 2008, pp. 506-528.

[29] Preferisco usare il termine italiano indicato nel sito www.treccani.it piuttosto che il termine inglese smartphone (accettato come neologismo anche nella lingua italiana nel 2012) perché il termine smartphone significa “telefono intelligente” e, secondo il Dizionario Garzanti della Lingua Italiana (1966), il termine “intelligenza” significa «La facoltà di intendere, propria della mente umana; intelletto; […]».

[30] Capellani G., Crescere nell’era digitale, Edilibri, Milano, 2018.

[31] McAllen A., La lezione in più, Edizioni Educazione Waldorf, San Vendemiano, 2008, p. 15.

[32] Prensky M., Digital Natives, Digital Immigrants Part 1, in On the Horizon, 9, 5, 2001, pp. 1-6.

[33] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit., p. 29

[34] Fonte: MIMIT, comunicato del 15 febbraio 2024.

[35] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit., pp. 80-81.

[36] Reel: in internet, e specialmente nel sito di relazioni sociali Instagram, funzionalità che consente agli utenti di creare, e pubblicare nel proprio profilo, video di breve durata […] (fonte: Treccani, voce Reel – neologismi 2024).

[37] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit., p. 86.

[38] Sisti C., L’Italia è il paese europeo con il maggior numero di influencer, in Elle, 24 gennaio 2024.

[39] Vedi: Redazione, Il fatturato di Chiara Ferragni è di 19 milioni all’anno, in Truenumbers, 2023.

[40] Salvalaggio E., Gaming, in Italia ne soffre il 24% degli adolescenti, in Quotidiano Sanità, 8 aprile 2022.

[41] Vedi: Chi e quanti sono i videogiocatori in Italia, in Corriere della Sera, 9 settembre 2006.

[42] Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2022, pp. 43-44.

[43] Conferenza Competizione e socializzazione, tenuta dal maestro Alessio Gordini il 24 febbraio 2024 presso la Libera Associazione Rudolf Steiner di Ancona.

[44] Uphoff J.K., Gilmore J.E. L’età della scolarizzazione – Quanti allievi sono in grado di corrispondere alle richieste della scuola? in Maturità scolare, idoneità alla scuola, obbligo scolastico, Quaderno di studi n. 16 dell’Associazione Internazionale degli Asili Waldorf, Edizioni Liberi Studi, Milano, 1998, p. 52.

[45] Spitzer M., Demenza digitale, Corbaccio (Garzanti), Milano, 2024, p. 61.

[46] Gui M., Gerosa T., Strumenti per apprendere o oggetti di apprendimento? Una rilettura critica della digitalizzazione nella scuola italiana, in Scuola democratica, 10, 3, 2019, pp. 481-501.

[47] Gui M., Il digitale a scuola: rivoluzione o abbaglio, Il Mulino, Bologna, 2019.

[48] MIUR, Piano Nazionale per la Scuola Digitale, 2015.

[49] Delfino M., Paglieri F., Digitale a scuola: troppo, poco o sbagliato? in Il Mulino, 71, 3, 2022, pp. 82-91.

[50] MIUR, Piano Nazionale, cit., p. 7.

[51] Gui M., Gerosa T., Strumenti per apprendere, cit.

[52] Casati R., Contro il colonialismo digitale: Istruzioni per continuare a leggere, Laterza, Bari, 2013.

[53] Gui M., Gerosa T., Strumenti per apprendere, cit.

[54] Si rimanda alla rassegna contenuta in Respi C., Gui M., Abbiati G., Trapani V., Angiola E., Ercolanoni S., et al., Precocità digitale, performance scolastiche e disuguaglianze: nuove evidenze e prospettive, Report di fine progetto EYES UP, Milano, 2025

[55] Fonte: MIM, comunicato dell’11 ottobre 2024.

[56] Vedi: K. Viner, Switching off: Sweden says back-to-basics schooling works on paper, in The Guardian, 11 settembre 2023.

[57] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit.

[58] Spitzer dice che oggi giorno non si usa più il termine “diabete senile” bensì “diabete di tipo 2” perché non viene più solo alle persone anziane ma è sempre più comune anche nei bambini e adolescenti (Spitzer M., Demenza digitale, cit.).

[59] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit.

[60] Si consideri che sei su dieci adolescenti dichiarano di stare svegli fino all’alba a chattare. Io ricordo che nel 2018 feci un viaggio ad Oslo e alloggiai in un ostello. La mia finestra dava su un cortile dove si ergeva un grande edificio adibito a studentato. Ricordo che, attraverso le loro finestre, vedevo come molti ragazzi stavano fissi davanti al computer dalla sera al mattino.

[61] La cronaca è piena di esempi di persone che hanno rischiato la vita o che l’hanno persa per farsi selfie sulle rotaie delle ferrovie o su promontori, etc.

[62] Ricordo che tempo fa molti giovani erano caduti vittime del Blue Whale Challenge: una catena che aveva come scopo l’istigazione al suicidio.

[63] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit., p. 38.

[64] Secondo l’antroposofia di Rudolf Steiner, i sensi sono dodici. Vi sono i quattro sensi basali, legati alla volontà che collegano con la propria corporeità ed interiorità: senso del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio; i quattro sensi mediani, che collegano noi e il mondo esterno: senso del gusto, dell’olfatto, della vista, del calore; e i quattro sensi superiori, che collegano noi all’altro uomo: senso dell’udito, della parola altrui, del pensiero dell’altro uomo e dell’io dell’altro uomo (per approfondimento si veda: Soesman A., I dodici sensi – porte dell’anima, Natura e Cultura Editrice, Alassio, 2020).

[65] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit., p. 64.

[66] Fonte: MIM, comunicato del settembre del 2024.

[67] Per approfondimenti si veda: Steiner R., Arte dell’educazione I – Antropologia, Editrice Antroposofica, Milano, 2016; Brown R.M., I processi vitali. Sette passi sulla via dell’apprendimento, Daelli, Milano, 2022.

[68] Conferenza Contributi alla nona conferenza dell’Antropologia di Rudolf Steiner, tenuta il 27 giugno 2022 presso la scuola Rudolf Steiner di Oriago (VE).

[69] Patzlaff R., Lo sviluppo del linguaggio del bambino in epoca digitale, Arcobaleno, Milano, 2024, p. 5.

[70] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit.

[71] Patzlaff R., Lo sviluppo del linguaggio del bambino, cit., p. 5.

[72] Idem, p. 1.

[73] Capellani G., Crescere nell’era digitale, cit.

[74] Capellani G., L’evoluzione dell’essere umano e l’utilizzo delle tecnologie digitali in Arte dell’educazione, 56-57, 2017.

[75] La scuola steineriana si è dichiarata apolitica e aconfessionale sin dalla sua costituzione nel 1919, pertanto i racconti delle biografie dei Santi e le storie dell’Antico Testamento non vogliono “indottrinare” i bambini all’insegnamento della Chiesa, ma servono per far ascoltare ai bambini storie di uomini e donne che hanno vissuto varie peripezie e avventure che gli hanno permesso un’evoluzione individuale.

[76] Sartori G., Homo Videns, Prima edizione (Economica, 2020), Laterza, Bari, 1997.

[77] Mander J., Quattro argomenti per eliminare la televisione, Vol. 3, Edizioni Dedalo, Bari, 1995.

[78] Popper K.R., (a cura di Giancarlo Bosetti), Cattiva maestra, cit.

[79] Giulianelli R. L’economista utile. Vita di Giorgio Fuà, Il Mulino, Bologna, 2019


Adolescenze – Rivista Transdisciplinare
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