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22 Settembre 2025
Franco Prina

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Devianze e violenza tra gli adolescenti: elementi per una lettura sociologica

SOCIOLOGIA

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Fascicolo 2

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Abstract Italiano

Il contributo intende offrire, utilizzando gli strumenti del sociologo, qualche chiave di interpretazione e spiegazione di alcuni caratteri dell’adolescenza nel contesto contemporaneo, con particolare attenzione ai comportamenti devianti e agli agiti violenti. Si propone di andare oltre le rappresentazioni dominanti e leggere e comprendere le forme di devianza e di violenza avendo riguardo ai protagonisti, ai loro bisogni, ai sentimenti provati, ai significati attribuiti alle relazioni con gli adulti e i coetanei. E guardando sempre più alla rilevanza della rappresentazione di sé, soprattutto attraverso i social, ai fini dell’ottenimento di consenso e di costruzione della propria identità. La complessità delle spiegazioni, che si fonda sull’intreccio tra fattori macro, meso e micro, consente di andare oltre schematiche e semplificatorie indicazioni sulle “cause” della devianza. Solo cogliendo questa complessità – e favorendo così una diversa narrazione della situazione – è possibile trovare strade efficaci di prevenzione e di promozione di processi di integrazione e responsabilità.

Abstract English

The contribution intends to offer, using the tools of the sociologist, some keys to interpreting and explaining some characteristics of adolescence in the contemporary context, with particular attention to deviant behaviour and violent acts. It proposes to go beyond the dominant representations and read and understand the forms of deviance and violence with regard to the protagonists, their needs, the feelings experienced, and the meanings attributed to the relationships with adults and peers. And looking more and more at the relevance of self-representation, especially through social media, for the purposes of obtaining consensus and constructing one’s identity. The complexity of explanations, based on the interweaving of macro, meso and micro factors, makes it possible to go beyond schematic and simplifying indications on the ‘causes’ of deviance. Only by grasping this complexity – and thus fostering a different narrative of the situation – is it possible to find effective ways of preventing and promoting processes of integration and responsibility.

Abstract Français

La contribution entend offrir, à l’aide des outils du sociologue, quelques clés d’interprétation et d’explication de certaines caractéristiques de l’adolescence dans le contexte contemporain, avec une attention particulière pour les comportements déviants et les actes violents. Elle propose de dépasser les représentations dominantes pour lire et comprendre les formes de déviance et de violence au regard des protagonistes, de leurs besoins, des sentiments éprouvés, des significations attribuées aux relations avec les adultes et les pairs. Et s’interroger de plus en plus sur la pertinence de la représentation de soi, notamment à travers les médias sociaux, pour obtenir un consensus et construire son identité. La complexité des explications, fondées sur l’imbrication de facteurs macro, méso et micro, permet de dépasser les indications schématiques et simplificatrices sur les « causes » de la déviance. Ce n’est qu’en appréhendant cette complexité – et en favorisant ainsi une narration différente de la situation – qu’il est possible de trouver des moyens efficaces de prévention et de promotion des processus d’intégration et de responsabilisation.

Abstract Español

La contribución pretende ofrecer, utilizando las herramientas del sociólogo, algunas claves para interpretar y explicar algunas características de la adolescencia en el contexto contemporáneo, con especial atención a los comportamientos desviados y los actos violentos. Propone ir más allá de las representaciones dominantes y leer y comprender las formas de desviación y violencia en relación con los protagonistas, sus necesidades, los sentimientos experimentados y los significados atribuidos a las relaciones con los adultos y los compañeros. Y observar cada vez más la relevancia de la autorrepresentación, especialmente a través de los medios sociales, para obtener consenso y construir la propia identidad. La complejidad de las explicaciones, basadas en la imbricación de factores macro, meso y micro, permite ir más allá de las indicaciones esquemáticas y simplificadoras sobre las «causas» de la desviación. Sólo captando esta complejidad – y fomentando así una narrativa diferente de la situación – es posible encontrar formas eficaces de prevenir y promover procesos de integración y responsabilidad.

SOMMARIO:
1. Adolescenza/adolescenze – 2. Adolescenti e giovani nelle rappresentazioni dominanti – 3. Oltre le rappresentazioni semplificate: alcune dimensioni rilevanti nell’universo degli adolescenti e giovani adulti – 4. Leggere e interpretare le forme di devianza e di violenza agita – 5. Le “cause” della devianza giovanile – 6. Investire in prevenzione e nella promozione di processi di integrazione e responsabilità – 7. Una diversa narrazione

1. Adolescenza/adolescenze

Proverò, con questo contributo a offrire qualche chiave di interpretazione di alcuni aspetti della complessa realtà dell’adolescenza nel contesto contemporaneo, con particolare attenzione ai comportamenti che sono socialmente definiti come “devianti” e, talvolta, giuridicamente qualificati come reati. Userò gli strumenti del sociologo che prova a descrivere, comprendere, interpretare e, almeno in parte, spiegare i nessi tra condizioni sociali e culturali, vissuti, dinamiche relazionali che sperimentano gli e le adolescenti e le persone adulte con cui si relazionano. Senza pretesa di esaustività e organicità, ma semplicemente raccogliendo e proponendo un insieme di riflessioni che possono far percepire, nel loro insieme e proprio nella loro articolazione, la non riconducibilità della complessità che abbiamo di fronte a sintesi schematiche e semplificatorie.

Tale complessità induce, in primo luogo, a interrogarsi sull’opportunità di parlare di adolescenza o se non sia preferibile, piuttosto, parlare di adolescenze, al plurale. O, meglio ancora, di considerare utili sia l’una che l’altra indicazione.

È infatti indubbio che l’adolescenza sia una categoria – peraltro “socialmente costruita[1] – che, nel senso comune e in correnti analisi sociologiche o psico-sociali, indica la fase di passaggio dall’infanzia alla adultità di ragazzi e ragazze che si trovano dunque assimilabili e descrivibili in maniera omogenea sotto non pochi profili. Da questo punto di vista, possiamo parlare di un “insieme” le cui connotazioni sono espressione del nostro tempo, nei contesti delle nostre società (essenzialmente occidentali) e delle condizioni materiali, sociali e culturali che vi sono dominanti e coinvolgono tutti (anche gli adulti). Dunque un insieme di giovani maschi e femmine che condividono alcuni diffusi valori, bisogni, problemi, prospettive, ecc.

Ma al tempo stesso è agevole osservare che siamo di fronte ad un insieme, a vario titolo, articolato e – sotto il profilo dei vissuti, dei modi di pensare e pensarsi, delle risorse e delle opportunità disponibili, dei limiti alle possibilità di operare scelte, ecc. – differenziato, secondo molte e diverse distinzioni. Pensiamo a differenze legate alle fasi di sviluppo, all’età e al genere. Ma anche al vivere in diverse aree geografiche del nostro o di altri Paesi o ai contesti socio-economici di appartenenza all’interno delle diverse aree. E poi, ancora, alla fondamentale distinzione tra essere italiani o stranieri. E, per questi ultimi, alle differenze legate alle origini (da quali Paesi e culture si proviene), a quale aspetto fisico si presentano (considerando il razzismo, anche istituzionale, oggi sempre più rilevante)[2], alla presenza dalla nascita (seconde generazioni) o per arrivo successivo e, in questo caso, con quale specifico percorso migratorio: ad esempio minori o giovani adulti non accompagnati oppure adolescenti ricongiunti, per ciò che questo comporta relativamente ai diversi gradi di possibilità di accesso ai diritti di cittadinanza e di opportunità di integrazione.

Così dobbiamo parlare, sempre, di adolescenze e di condizioni giovanili, al plurale, frutto dell’intreccio di tutte le caratteristiche qui definite e che si compongono in maniera ogni volta originale in ciascuno specifico individuo.

Per questo, qualunque discorso dovrebbe evitare di definire la condizione adolescenziale basandosi su pochi essenziali e semplificati elementi, ma dovrebbe trovare sempre il giusto equilibrio tra le pur esistenti tendenze e tratti di fondo diffusi (che costruiscono lo scenario che sociologicamente possiamo chiamare il piano “macro”) e le differenze e articolazioni derivanti da una molteplicità di situazioni e condizioni, ossia “le adolescenze” situate e peculiari, derivanti da specifici contesti e relazioni (riconducibili ai piani “meso” e “micro”).

2. Adolescenti e giovani nelle rappresentazioni dominanti

È tratto distintivo caratterizzante gli ultimi anni la grande importanza attribuita alle rappresentazioni e, come si dice di frequente, alle “narrazioni” di ogni aspetto della vita della società e delle persone. Sia quelle prodotte dai media tradizionali, offerte alla fruizione di chiunque voglia e possa accedervi, sia, e in maniera crescente, quelle proposte dai social media, nel mix tra produzioni e auto-produzioni di contenuti diversi da parte di ciascuno, sempre più senza filtri e dunque garanzie di veridicità e, addirittura, di liceità.

È naturale che di questa rivoluzione nel campo della comunicazione adolescenti e giovani siano protagonisti. E ciò sotto due profili: da un lato, dell’immagine che di essi viene diffusa; dall’altro, della gestione da parte loro di questi stessi strumenti, nelle tante forme di auto-rappresentazione, su cui diremo più avanti.

Se riflettiamo sullenarrazioni e sulle rappresentazioni che degli adolescenti e dei giovani offrono il mondo degli adulti, i media, i rappresentanti politici, gli esponenti delle istituzioni, a volte anche gli operatori di servizi che se ne occupano, possiamo constatare che poco o nulla di quella complessità e articolazione di tratti prima evocata è dato riscontrare. L’adolescenza e la condizione giovanile sono tratteggiate tendenzialmente come insiemi connotati da negatività e problematicità, dal loro costituire una “emergenza” in quanto produttori di specifiche e gravi situazioni che destano allarme. Ne sono elementi fondanti la dichiarata costante crescita dei comportamenti problematici e degli agiti devianti (priva di qualsiasi fondamento oggettivo), così come la precocità e l’abbassamento dell’età nelle esperienze di vita e nella commissione di reati.

Oggi come sempre – essendo queste qualificazioni e valutazioni reiterate nel tempo – i giovani sono considerati fonte di “panico morale”[3], un pericolo da contenere e reprimere. Spesso senza alcun riferimento a dati oggettivi e nessuna memoria relativamente a periodi in cui le modalità di porsi in relazione all’ambiente e nelle interazioni con gli adulti erano sicuramente altrettanto, se non più, problematiche e gravi. E senza alcuna comparazione con contesti diversi, con Paesi anche vicini dove – rispetto all’Italia – ben più estese sono le condizioni di disagio individuale e le problematiche relazionali e sociali che ne derivano.

Tratto caratterizzante i media tradizionali, sono le designazioni stereotipe dei protagonisti di fatti e situazioni per le routines narrative adottate, soprattutto nei titoli. Tipico esempio è l’uso costante dell’espressione baby gang per qualunque azione anche solo di due o tre ragazzi che compiono insieme un reato, sottraggono beni o agiscono violenza. Quando non prevalgono qualificazioni esplicitamente derivanti da pre-giudizi e ostilità, se non da vero e proprio razzismo, per chi appartiene a minoranze ed è, visibilmente, di origine straniera.

Il trattare sempre gli adolescenti e i giovani come categoria, dove scompaiono le individualità, le motivazioni, i vissuti, si accompagna a un costante schematismo nelle spiegazioni di atti e comportamenti devianti, ben espresso nella formula di senso e linguaggio comune: “la colpa è…”. Di volta in volta, la famiglia, gli insegnanti, le cattive compagnie, le serie televisive, i social, i rapper, ma soprattutto e sempre più, le predisposizioni naturali o i geni (in una sorta di sempre affascinante vulgata neo-positivista) o la mancanza di severità delle leggi e di punizioni esemplari. Da qui l’invocazione di maggior rigore, la definizione di nuovi reati e di pene più severe, il più frequente ricorso al carcere anche per i minorenni, nell’illusoria invocazione e proposizione di risposte “risolutive”.

Sempre traspare evidente l’impressione che gli adolescenti e i giovani siano considerati come portatori di una sorta di alterità, di estraneità rispetto alle dinamiche sociali “normali” e alle responsabilità diffuse di tipo “sistemico”, quelle che sono riconducibili agli imperativi economici, sociali e culturali, per questo affrontabili solamente assumendo la complessità degli intrecci di fattori e livelli, dal macro al micro (di cui diremo sotto). Dinamiche che non sono mai messe sotto accusa e complessità che non sono mai affrontate seriamente per evidenti motivazioni: la necessità di vendita dei prodotti e l’audience (per i media), la ricerca di consenso (per la politica), il bisogno di definizione di norme, standard operativi e procedure (per le istituzioni), la riduzione delle complessità (per gran parte degli operatori smarriti e in difficoltà di fronte a cambiamenti rapidi e con sempre minori risorse a disposizione).

3. Oltre le rappresentazioni semplificate: alcune dimensioni rilevanti nell’universo degli adolescenti e giovani adulti

Provare a interpretare con attenzione i tratti che connotano le adolescenze contemporanee, dovrebbe orientare in due direzioni costruttive. La prima, come abbiamo detto, quella di evitare i luoghi comuni dell’allarme, dell’emergenza, della eccezionalità, della radicale diversità (se non della “mostruosità”) dei comportamenti delle nuove generazioni rispetto a quelle che le hanno precedute.

La seconda quella di sforzarsi di leggere i tratti che le connotano e che possono spiegare, ad un tempo, la “normalità” del quotidiano di tanti, dei più, e il disagio, lo smarrimento, la rabbia di alcuni. Ci possono orientare alcuni aspetti cruciali per le analisi che, come sociologi e operatori a contatto con gli adolescenti, si possono svolgere nel tempo presente: i desideri, la dimensione del tempo, la percezione e la fruizione dei luoghi, i riferimenti “culturali”, la rilevanza delle autorappresentazioni e delle relazioni virtuali. Proviamo – senza pretesa di esaustività e per quanto possono essere utili per le riflessioni che seguiranno – a richiamare qualche elemento per ognuno di questi aspetti.

I desideri: non è difficile cogliere, tra quelli più diffusi, senza distinzione di collocazione sociale, quello dello stare quasi esclusivamente con i propri simili. Espressione dell’assoluta centralità delle relazioni orizzontali, nella crisi delle dimensioni relazionali verticali, siano esse genericamente intergenerazionali, siano quelle con titolari di ruoli educativi o istituzionali.

Intrecciato a questo desiderio troviamo quello di sperimentare emozioni, sensazioni e piacere che sono assicurati da più elementi: i legàmi, la complicità, la vicinanza fisica (anche eroticizzata, senza distinzione di genere), le esperienze sessuali precoci e sperimentali, il divertimento (il gioco, il ballo, alcune prestazioni fisiche), le sostanze psicoattive (alcol e sostanze illegali, in particolare le N.P.S.), alcune esperienze adrenaliniche, quali quelle rappresentate dalla ricerca del rischio, da sfide e trasgressioni, da fughe dalle agenzie di controllo. E infine, come tratto del tempo presente, il desiderio di apparire ed essere riconosciuti in primis dai pari, ma anche dal resto del mondo, sia esteriormente (per il look) sia per agiti che sollecitano interesse, ammirazione, imitazione, soprattutto consenso, misurato in likes e followers.

La dimensione del tempo ci fa cogliere l’importanza, se non l’assoluta centralità, del “qui e ora” per assenza di interesse (o oggettiva difficoltà) di proiettarsi in un futuro immaginabile, date le incertezze delle prospettive di realizzazione. Così si può capire un tempo, per molti, vuoto di impegni seri quali quelli che potrebbero offrire strumenti per costruire quelle prospettive, dunque tempo di noia, tempo sostanzialmente sprecato. Ma ci indica anche la rilevanza del tempo dedicato a soddisfare i desideri che sopra abbiamo richiamato, il tempo del divertimento, dell’aggregazione, la notte più che il giorno. E ancora un rafforzato orientamento – che è peraltro proprio anche di tanti adulti nella società del consumo compulsivo di beni e, più ancora, di sensazioni – a considerare essenziale che non intercorra nessun tempo di attesa tra espressione e realizzazione dei desideri percepiti, sostanzialmente la non posticipazione dei piaceri ricercati.

In qualche misura assistiamo a una radicalizzazione di questi orientamenti, dopo l’esperienza del tempo segnato dall’eccezionalità della chiusura e dell’isolamento causato dal Covid. La compressione del confinamento ha prodotto due esiti. Da un lato il ritiro radicale: isolamento dalle relazioni, rifiuto della comunicazione con altri, rifugio nelle tecnologie informatiche, in alcuni casi un aggravarsi di problematiche che connotano le forme di lento annullamento perseguite nella solitudine come l’anoressia, i tentativi di suicidio e i suicidi.

Dall’altro lato, l’esplosione di vitalità successiva alla fine delle limitazioni, la riscoperta della fisicità del contatto con altri, la riconquista o la conquista senza limiti e regole di spazi aperti, la provocazione verso gli adulti in qualche modo colpevoli di aver “rubato” una parte della loro vita, l’aggregazione tra chi si riconosce come simile e il rifiuto di chi “non è dei nostri”, con conseguenti confronti e scontri di gruppo con estranei a un determinato contesto e, in casi anche molto gravi, con i “diversi” (i neri, i gay, i senza dimora).

Queste considerazioni si allacciano alla terza dimensione utile per comprendere la realtà vissuta da adolescenti e giovani: quella dei luoghi. Anche qui troviamo alcuni tratti diffusi in maniera “puntiforme” in molte realtà locali, tra i luoghi connotati da omogeneità culturale che garantiscono la percezione di una appartenenza fondata su, ancorché fragili, radici etniche che si possono vivere ed esibire con fierezza, ai luoghi che offrono la percezione di condividere con altri le stesse condizioni ed esperienze, al di là delle origini e del colore della pelle. Sono proprio questi i luoghi che sempre più frequentemente vedono formarsi aggregazioni composte da diversi quanto alle origini geografiche proprie o delle famiglie, ma uguali per la comunanza di condizioni, di esperienze, di difficoltà, di esposizione agli stessi messaggi. Luoghi “naturali” di incontro, di attività, di espressione ed esibizione, scelti a volte perché consentono una aperta e provocatoria visibilità, altre volte perché garantiscono, all’opposto, invisibilità. Luoghi aperti o chiusi (come le piazze artificiali dei centri commerciali), scelti anche per mera fruibilità (ad esempio, stagionale). Luoghi scelti per come sono percepiti dagli stessi adolescenti e giovani, per le rappresentazioni spesso effimere che circolano, per la fama (anche negativa) che li accompagnano, per i vissuti positivi che assicurano (o promettono). Tra questi, a volte, luoghi – purtroppo pochi – che offrono una accoglienza non giudicante, la possibilità di essere ascoltati e aiutati, alcune opportunità di aggregazione per coltivare interessi, come quelli aperti da associazioni o enti che fanno lavoro di strada e di comunità.

A queste considerazioni sono corollario quelle relative alla mobilità tra luoghi e al senso che vi si attribuisce: se spesso è naturalmente legata alla vita quotidiana (scuola, lavoro, incombenze varie), con la centralità degli snodi dei servizi di trasporto pubblici, in molti casi la mobilità è motivata da ricerca attiva di opportunità di incontri, di consumi, di guadagno, a volte di agiti illegali. Più ampiamente, la mobilità verso un “altrove” immaginato per potersi realizzare: il centro per chi sta in periferia, la città per chi vive in provincia, fino all’Italia per chi cresce in parti del mondo deprivate, o il resto del mondo per chi, qui da noi, non riesce a realizzarsi come desidera.

In parte all’origine di queste forme di mobilità sono sicuramente, i molti e diversi riferimenti “culturali” condivisi, ancorché provvisori, mutevoli come sono le mode e i marchi privilegiati, i contenuti della realtà virtuale come le serie o i videogiochi, le espressioni linguistiche con i gerghi settoriali condivisi. Riferimenti sono i diversi “influencers”, anche qui nel mix di trasgressione e di appiattimento sulla moda e sui valori consumistici spinti all’eccesso. Molto si discute dell’influenza sui comportamenti di alcuni generi musicali e di chi li interpreta, come i protagonisti del trap[1], fortemente trasgressivi, apparentemente alternativi al sistema, in realtà commercializzati e oggetto di business, anche sfruttando gli scandali di personaggi complessi e problematici (per tutti il famoso rapper che si è chiamato provocatoriamente Baby gang).

È questo insieme di elementi che spesso domina i pensieri, le emozioni, i desideri, gli atteggiamenti di tanti adolescenti, molto più dei contenuti (e dei valori) trasmessi dalle tradizionali fonti di socializzazione, scolarizzazione ed educazione. Fonti peraltro incerte e a loro volta (pensiamo a tanti adulti quando gestiscono il ruolo di genitori) fortemente condizionate dai tratti della cultura dominante da cui provengono stimoli e contenuti orientati essenzialmente al consumo, contraddittorie pressioni alla conformità e, insieme, legittimazione di trasgressioni (dai consumi di sostanze psicoattive alla violenza in tutte le sue espressioni), eccedenza di opportunità con la percezione che tutto è possibile, che inducono scelte difficili tra opzioni immaginate, ma non perseguibili in realtà (con la relativa frustrazione), costante mutevolezza di orientamenti e di modi di porsi che rendono difficile definire orizzonti educativi.

Infine, grande attenzione va posta sul ruolo della auto-rappresentazione, della proposizione di sé, non solo sulle scene reali, ma anche, e soprattutto, su quelle virtuali. Molto si è detto sul ruolo dei social per le ragazze e i ragazzi[2]. Mezzi per parlare di sé con i pari, con gli altri coetanei, ma anche – sebbene in maniera indiretta – con gli adulti che, magari inconsciamente, si spera possano osservarti e comprendere qualcosa che nella relazione diretta non si è in grado di comunicare. La diffusione dell’immagine di sé si gioca sull’apparenza esteriore, anche costruita, a volte altra da quella reale, come il riprendersi vicino a beni che rappresentano status symbol, ovviamente non posseduti, l’indossare i marchi famosi e costosi spesso “taroccati”, le pose provocatorie o esibizionistiche, spesso erotizzate, l’imitazione di personaggi famosi.

Molte sono le produzioni di immagini e parole che paiono espressione di vissuti di disagio e frustrazione: ecco allora la rappresentazione di “gesta” provocatorie, trasgressive, sfidanti le istituzioni, da cui traspare aggressività e rabbia. Fino alla ripresa e condivisione di comportamenti di violazione delle leggi, di commissione di reati in gruppo, di interazione spavalda con le forze dell’ordine e con le istituzioni penali in cui si mostra assenza di paura (in realtà spesso presente), rifiuto di sottomissione o di pentimento.

In altri casi, ad esempio per le seconde o terze generazioni di immigrati, la rappresentazione di sé è connotata semplicemente dal desiderio di segnare una specifica appartenenza, attraverso l’esibizione di segni distintivi di un noi che ci definisce diversi da altri e soprattutto assicura una qualche forma di identità cui ancorarsi. È il caso dei gruppi di latinos che si rifanno ad alcune comunità transnazionali che coltivano i sogni di una “nazione” ideale di simili che vivono la diaspora ma non rinunciano a sentirsi uniti[3].

Spesso essi sono parte di un panorama ricco di interessanti e originali produzioni “culturali” in proprio, che meritano (o meriterebbero) attenzione e promozione, come video, esecuzioni musicali, testi di canzoni. Non di rado testimonianza del bisogno di rivendicazione orgogliosa di radici, di appartenenza territoriale o a un determinato gruppo culturalmente connotato[4].

In ognuna di queste forme di comunicazione elemento decisivo è la ricerca di visibilità e consenso, il raggiungimento di una sorta di fama (misurabile in likes e followers), ottenibile nella costruzione di un personaggio, nella produzione di contenuti, nella speranza di farne magari una fonte di reddito.

La centralità del bisogno di consenso contribuisce a ingigantire il significato delle situazioni in cui si sperimentano attacchi e forme di distruzione dell’immagine coltivata e promossa da parte di altri significativi, dalle semplici critiche al cyberbullismo al revenge porn. Con conseguenze a volte tragiche, come mostrano diversi casi di suicidi in cui il ruolo di queste forme di violenza attraverso i social sembra rilevante, almeno in termini di fattore di rischio.

4. Leggere e interpretare le forme di devianza e di violenza agita

Da sempre e per tutte/i la fase dell’adolescenza e della prima gioventù è caratterizzata da scelte e comportamenti che segnano un allontanamento più o meno radicale dalle norme trasmesse dagli adulti. Esso è tratto caratterizzante, “normale” dello sviluppo, che si compie nell’oscillare tra individualizzazione, per distinguersi dagli adulti, con cui da bambino si vive in simbiosi (soprattutto i genitori), e identificazione con altri, soprattutto i pari o chi appare e viene percepito come meritevole di ammirazione e imitazione.

Del bisogno di definirsi altri dagli adulti in modo radicale e carico di significati comunicativi sono espressione quelli che possiamo considerare comportamenti devianti (socialmente e, in alcuni casi, penalmente) che si manifestano in forme diverse. Essenzialmente collocabili in due aree, ambiti e sfere.

Da un lato, le forme più nascoste, «ripiegate» su di sé, i propri bisogni, i propri disagi, che a volte trovano compensazione nella dimensione dei consumi di beni e soprattutto di sensazioni, con comportamenti e stili di vita che si possono definire dell’eccesso o della sperimentazione del limite: pensiamo alla ricerca di emozioni ad alta intensità, come l’uso sperimentale di sostanze psicoattive, legali e illegali, alla modalità dell’eccesso situazionale (lo sballo, il binge drinking) o di consumo di beni materiali, nelle forme della compulsività e della dipendenza da shopping. Altre volte si esprimono nell’isolamento dalle relazioni interpersonali dirette, con le forme del rifiuto della comunicazione con altri (esemplificato dal fenomeno degli hikikomori[5]) e l’assorbimento della vita quotidiana nel legame senza discontinuità con le tecnologie informatiche. Altre volte ancora si manifestano nel rapporto controverso con il proprio corpo e con la vita nelle forme della ricerca dell’ebbrezza della velocità o la roulette russa nelle sue svariate forme, nell’annullamento di sé perseguito attraverso l’anoressia o la bulimia, nella violenza auto-diretta (i tagli, il sangue, i segni), nella fuga e la scomparsa, nei tentativi di suicidio e nei suicidi riusciti. Correre un rischio assume qui il significato di «scelta per uscire dalle routines, per ricercare un senso al vivere»[6] e, insieme, un elemento di produzione di identità attraverso comportamenti ispirati al desiderio di “diventare fantasmi”, di farsi trasparenti, di scomparire perché qualcuno si accorga della mancanza, del vuoto che essi lasciano. Agiti che cercano di segnalare l’esistenza, il disagio o la sofferenza di chi li pone in essere a chi (adulto), di solito, è troppo occupato dalla propria ricerca di senso per accorgersi dei bisogni e delle domande degli altri.

Dall’altro lato, troviamo le forme di espressione di comportamenti che consistono in violazione di norme penali e in violenze nelle relazioni interpersonali con altri significativi o, negli spazi pubblici, con estranei.

In generale le motivazioni delle manifestazioni di violenza, degli agiti connotati da violenza fisica (in forma di aggressioni, a volte di omicidi), laddove hanno un carattere “espressivo” e non (o non solo) strumentale, si possono trovare in una sovrapposizione di più condizioni o fattori, a volte di tipo culturale (il desiderio di dominio, la risposta a una offesa non emendabile, la considerazione della violenza come mezzo per risolvere conflitti o per ottenere ciò che si vuole), a volte psicologico (una grave forma di sofferenza psichica nascosta, traumi risalenti e non adeguatamente considerati).

Anche nel caso di forme più diffuse di violenza, soprattutto tra gli adolescenti, possiamo interrogarci sul significato che il ricorso ad essa può assumere. Prendiamo per questo in considerazione due esempi, oggi oggetto di grande interesse: la violenza e le diffuse prevaricazioni sul piano psicologico-relazionale che si esprimono, nei contesti scolastici, nel bullismo e nella sua variante contemporanea, il cyberbullismo, da un lato; e quella agita in gruppo negli spazi pubblici, dall’altro.

Se pensiamo alla violenza (psicologica, fisica, sessuale) nelle relazioni tra pari (espressione che preferisco a quella corrente di bullismo), è utile e opportuno, se si vuole coglierne il significato per chi la agisce, considerarla una forma di espressione o comunicazione originata da bisogni o carenze o, ancora, da sollecitazioni del contesto. Senza la pretesa di affrontare la complessa questione, volendo operare una distinzione dicotomica semplificatrice (e forse semplicistica) potremmo interpretare la violenza essenzialmente come espressione di sofferenza e disagio o come espressione di bisogno di affermazione e di costruzione di una identità in contrapposizione agli altri.

Nel contesto scolastico, ad esempio, ho a suo tempo proposto[7] di leggere e interpretare la violenza usando alcune categorie che naturalmente si possono tra loro intrecciare:

  • una violenza “voce”, che discende dall’impossibilità o incapacità di alcuni alunni e studenti di comunicare secondo i canoni accettati ossia quelli codificati dall’istituzione scolastica nella sua espressione di istituzione volta a fornire conoscenze e competenze, a richiedere un rendimento verificabile attraverso modalità standardizzate, a premiare alcune modalità di comunicazione e le capacità relative, il tutto in un quadro di regole comportamentali e relazionali;
  • una violenza “reazione”, che esprime il disagio per l’insuccesso scolastico, per l’inadeguatezza percepita dal soggetto, la violenza che si può definire in termini di formazione reattiva alla frustrazione;
  • una violenza “identità”, che segna, con atti e gesti simbolici, la distanza culturale esistente, circa le regole e i valori, tra l’insieme degli appartenenti all’istituzione e alcuni individui o, più frequentemente, gruppi di individui fortemente impregnati di culture (o subculture) altre rispetto a quella dominante;
  • una violenza “protesta”, originata dalla percezione di un trattamento ingiusto e/o discriminatorio, cui si reagisce attaccando sia direttamente chi ne è considerato responsabile, sia indirettamente i beni che gli appartengono o ancora i simboli dell’istituzione in cui tale trattamento è perpetrato;
  • una violenza “conformismo”, come sostanziale adattamento alla violenza percepita o osservata intorno a sé come mezzo diffuso di regolazione dei conflitti sia all’esterno, nella società o nelle relazioni interpersonali sperimentate, sia, spesso, all’interno dell’istituzione (scolastica o altra), tra le diverse categorie che vi convivono, da parte o tra gli stessi insegnanti, da parte o tra altri compagni, tra insegnanti e famiglie, ecc.

Solo la capacità di leggere e dare significato ai comportamenti problematici, usando queste o altre categorie, consente agli adulti responsabili e in relazione con autori e vittime, così come alle istituzioni stesse, di affrontare costruttivamente e efficacemente le situazioni critiche. Nonché, ancor prima che si producano, di prevenirle rimuovendo o almeno attenuando l’impatto dei fattori che ne sono all’origine.

Ciò vale anche per gli agiti nello spazio pubblico, che si esprimono nell’aggregazione in bande e nei comportamenti predatori e violenti. Essi denotano, e non da ora, il loro essere espressione di bisogni di identità, di appartenenza, di dominio (su un territorio), di potere esibito anche come contro-potere, di possesso di beni di consumo simbolicamente connotati.

Peraltro le tanto raccontate gesta delle cosiddette baby gang, oggi ossessivamente al centro dell’attenzione dei media, non sono le uniche dinamiche aggregative di carattere deviante che possono rispondere a bisogni di giovani e giovanissimi. Pensiamo ad alcune formazioni politiche di carattere estremista fortemente identitarie in quanto radicalmente oppositive nei confronti del sistema dominante (da punti di vista opposti, come possono essere i neo-fascisti e i neo-nazisti o alcuni gruppi di antagonisti di sinistra, i Black Bloc, ecc.). Analogamente possiamo guardare a quanto succede nello sport (il calcio in particolare) con le forme di identificazione intorno a simboli e riti nelle aggregazioni delle tifoserie organizzate, intrecciate spesso con le precedenti, degli ultras.

Le connotazioni, i significati per chi vi aderisce e le dinamiche interne e nei rapporti con l’esterno di tanti gruppi o bande o gang sono le stesse, come molti saperi “esperti” – oggi in genere ignorati – hanno mostrato in più di un secolo di ricerche sociologiche. Ci troviamo infatti di fronte a una storia lunga, che presenta pochi caratteri di novità, né particolari segni di “emergenza”. Bande, gruppi di giovani e giovanissimi sono esistiti da sempre, in ogni contesto, come espressione di differenziazione, trasgressione, ribellione, opposizione di giovani (adolescenti) agli adulti e all’ordine costituito. Valerio Marchi descrive le molte forme di “teppa” giovanile dal rinascimento ai tempi moderni[8]. La presenza delle gang in senso moderno nelle città statunitensi dall’inizio del ‘900 e poi in quelle europee e di altre parti del mondo, è testimoniata da una lunga tradizione di studi, a partire da quelli condotti dalla Scuola di Chicago negli anni ‘20-’30 del secolo scorso[9].

In Italia da un po’ di anni non passa giorno che non appaia, in qualche luogo, una baby gang. Espressione giornalistica, che non troviamo in nessuna altra parte del mondo, comoda per i titolisti delle cronache evocative di allarme sociale in quanto fortemente suggestiva, anche se nella realtà non ha fondamento oggettivo dal momento che i protagonisti dei comportamenti così connotati non sono bambini né tantomeno costituiscono gang nel senso proprio del termine[10].

Certo quello delle aggregazioni giovanili che adottano comportamenti devianti e violenti è un oggetto difficile da definire, in quanto oggetto “nascosto” che pone in difficoltà chi si propone di intercettarlo, descriverlo e comprenderne i tratti e i fattori che ne sono all’origine (premessa indispensabile per affrontarlo, prevenirlo, trattarlo). Ma alcune cose si possono dire per alcuni chiarimenti sul fenomeno.

In primo luogo, bisogna ricordare che la dimensione aggregativa è “normale” in adolescenza ed è dunque elemento caratterizzante delle scelte devianti o del compimento di reati, in molti casi non compiuti da soli. Questo agire con altri assume molteplici forme – in un continuum, osservato in tutte le ricerche – che va dal diffusissimo co-offending all’aggregazione in gang vere e proprie.

In secondo luogo tutti gli studi mostrano che la banda è in genere una delle possibili risposte a bisogni diffusi un po’ in tutti gli adolescenti di alcuni ambienti sociali[11]. Pur nelle differenze di contesto e di condizioni (su cui riflette la Prefazione al libro di Cohen[12]), possiamo ancora dire che la devianza di ragazzi in banda è una risposta condivisa da quanti, nella fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta, vivono una “frustrazione da status” originata dalla sperimentazione di forme di deprivazione e/o dalla percezione di assenza di possibilità di realizzazione delle proprie aspirazioni e degli obiettivi di successo imposti dalla cultura dominante. I “ragazzi” che condividono l’esigenza di costruirsi una propria identità sociale e un proprio orizzonte di opportunità in un contesto che percepiscono come difficile o addirittura ostile saranno indotti, ieri come oggi, a elaborare e praticare con altri simili un nuovo modello sociale, valoriale e relazionale di tipo subculturale, con proprie regole e norme.

Così, la delinquenza percepita altrove in maniera negativa, può acquistare valore positivo come “formazione reattiva”. Trattandosi di ragazzi e giovani, nelle sue manifestazioni essa è, al tempo stesso, devianza strumentale ed espressiva ed è caratterizzata dall’essere, per usare le parole di Cohen, «gratuita, maligna, distruttiva, versatile».

Ciò che caratterizza le bande giovanili, relativamente, e spesso solo momentaneamente, strutturate, è ancora oggi:

  • l’essere un gruppo caratterizzato da relazioni tra membri dirette, primarie, quotidiane, emotivamente intense;
  • l’agire insieme per il compimento di reati “strumentali” (come sono tipicamente la rapina o il furto), la predazione di beni utili e/o, soprattutto oggi, carichi di valenze simboliche, non accessibili diversamente;
  • l’accompagnamento di tali reati con agiti connotati da violenza spesso gratuita, non giustificata, una violenza che si esprime con malignità, per esibire il proprio disprezzo per le vittime (in genere considerate più fortunate), a volte per l’affermazione del dominio sul territorio o su spazi simbolicamente importanti agli occhi dei protagonisti (ad esempio, le vie del centro per ragazzi che vengono dalle periferie).

È frequente, d’altra parte, osservare agiti violenti per la regolazione di conflitti interni ai gruppi o con l’esterno, nel confronto con altri gruppi considerati minacciosi o da punire per qualche colpa vera o presunta. A volte, anche in forme di distruttività verso le cose o i simboli, nell’esibizione di forza e potenza (che in genere nasconde fragilità), semplicemente per rompere routines, per riempire vuoti o, ancora, per manifestare la propria esistenza, per provocare gli adulti o sfidare i rappresentanti di istituzioni. Fino ad arrivare, in certi contesti, alla violenza che accompagna la gestione di (segmenti di) mercati o servizi illegali, nel “faticare” per procurarsi guadagni in qualche modo laddove altre possibilità sono precluse o non sono così attraenti.

Se tutto questo risulta evidente da molte rilevazioni, analisi e ricerche, una riflessione seria non può non cercare di comprendere che cosa rappresenta una banda, così come altre forme di aggregazione tra pari, per i ragazzi che ne fanno parte. In particolare, a quali bisogni risponde? Se proviamo ad interrogare chi ne fa parte, il gruppo banda rappresenta una opportunità (a volte l’unica):

  • di risposta a una profonda solitudine, data l’inconsistenza dei legami con gli adulti e la distanza dei rappresentanti delle istituzioni;
  • di identità, per poter essere qualcuno di definito, a volte per essere riconosciuto per ciò che la banda è conosciuta, adottandone ad esempio i simboli esteriori ed esibendoli nelle relazioni con il contesto;
  • di appartenenza, nella speranza di essere accettato per come si è, veder riconosciuta la propria storia e condizione;
  • di sperimentazione di sé nei rapporti con gli altri, poter contare per altri facendo valere (ad es. nei conflitti agiti attraverso la violenza) abilità, forza, coraggio, lealtà, ecc.;
  • di adattamento (creativo attraverso il ricorso a mezzi non legali) a modelli di possesso e consumo diffusi, tanto che potremmo parlare di devianza orientata al conformismo;
  • di reazione combattiva allo stigma sociale che colpisce in genere i giovani e quelli meno integrati, come gli stranieri, in particolare;
  • a volte di “lavoro”, ad esempio in ruoli subalterni in organizzazioni di adulti come nella sorveglianza di territori o nella gestione delle attività terminali del traffico di droghe, che consente l’acquisizione di risorse non ottenibili diversamente.

E se per tanto tempo, nella storia, tutto questo si declinava quasi solo esclusivamente al maschile, la novità di questi ultimi anni è costituita dall’emergere di una presenza e un protagonismo, nei gruppi, di giovani e giovanissime ragazze[13] che pongono in essere comportamenti predatori, aggressivi, violenti, in una sorta di competizione con i coetanei maschi nell’assunzione di ruoli anche nel campo della devianza, combattendo a loro volta la frustrazione derivante dal non riconoscimento di capacità di trasgressione e di ottenimento di rispetto. A volte, come nel caso di ragazze con background migratorio, sperimentando difficoltà specifiche (maggiori) nella ricerca di identità tra culture diverse.

5. Le “cause” della devianza giovanile

Leggere, comprendere e individuare le cause (meglio i fattori che concorrono al prodursi) dei comportamenti e dei fenomeni di cui parliamo appare compito non facile per la natura stessa delle devianze: oggetti nascosti i cui responsabili sono sfuggenti allo sguardo della ricerca sociologica come spesso anche indisponibili alla comunicazione con rappresentanti delle istituzioni[14].

Nella individuazione dei fattori sociali favorenti e delle motivazioni degli attori sociali si corre spesso il rischio di semplificazioni, per il bisogno di risposte funzionali all’orientamento degli interventi. Al contrario va richiamata l’importanza ̶ oggi come sempre ̶ di interpretazioni che facciano sintesi di studi e teorie accumulatesi nel tempo, valorizzino il contributo dei diversi approcci disciplinari, sempre cogliendo le specificità dei differenti comportamenti (es. reati strumentali o espressivi, le devianze aggressive o ripiegate, ecc.). Interpretazioni che, quando guardano al singolo attore sociale, sappiano assumere, sempre, una prospettiva sequenziale che eviti “determinismi”, atteggiamenti che determinano profezie che si autoavverano, rinuncia alla speranza nelle possibili prospettive positive che possono, al contrario, essere coltivate.

Sociologicamente, qualunque tentativo di comprendere i fenomeni e, insieme, orientamenti e agiti dei singoli non può prescindere dal considerare le connessioni dei tre piani: macro, meso e micro. Peraltro, considerare questi tre piani e il loro intreccio è indispensabile se si vuole passare dalle analisi alla riflessione su come affrontare i problemi sociali evitando semplificazioni e attribuzione di “colpe” a questo o quello specifico elemento.

I fattori favorenti i fenomeni di devianza, la criminalità e la violenza, si situano, in primo luogo, sul piano che possiamo definire “macro”. È il piano che colloca l’agire individuale e collettivo negli scenari strutturali e culturali che connotano il tempo presente. In questo senso rappresenta lo sfondo che, nelle società come la nostra, segna la condizione adolescenziale e giovanile – ma anche quella di tanti adulti – come condizione, nel suo insieme, segnata da precarietà e subalternità, che nega solidi riferimenti e certe prospettive, essendo la dimensione strutturale – nella globalizzazione e nelle crisi che attraversano l’economia – connotata da tante assenze e tante incertezze: lavoro, sicurezze, futuro.

Ma molto importanti sono anche gli orientamenti culturali dominanti[15] che delineano l’individuo “ideale” come libero, flessibile, slegato da vincoli impegnativi e duraturi, insofferente verso vincoli sociali (regole, norme, doveri), che deve sapersi orientare di fronte all’eccedenza di opportunità, autoreferenziale ed egoista, artefice unico del proprio destino (e dunque responsabile dei propri successi e dei propri fallimenti). Orientamenti che assolutizzano il riferimento al presente (non c’è più la storia, non c’è un futuro), da vivere dunque sfruttando al massimo le opportunità o risolvendo nell’immediato e senza scrupoli morali i problemi che si incontrano, in cui l’unico imperativo e vincolo per tutti è l’essere consumatori insaziabili di beni e soprattutto di sensazioni, incessantemente rinnovati e riproposti dal sistema produttivo, da acquisire senza frapporre tempo tra l’espressione del desiderio e la sua realizzazione.

Per questo possiamo dire che le devianze sono il riflesso di tratti che più estesamente connotano, nel tempo presente, le relazioni prima che tra i giovani, tra gli adulti. In particolare pensiamo al venir meno del senso di responsabilità verso gli altri, verso il bene comune, verso la società; all’interesse strumentale per l’altro (meritevole di considerazione solo se è utile, se si può acquistare, se è sfruttabile, …); al trionfo dei legami “deboli”, ovvero all’assenza di identificazione forte, assoluta in qualunque istituzione; alla percezione delle stesse istituzioni come utili solo se rispondenti con immediatezza alle esigenze sentite di volta in volta.

Ma pensiamo anche alla crisi della legalità percepita estesamente come ostacolo alla libertà individuale o al raggiungimento degli obiettivi di possesso che paiono non comprimibili. O, ancora, alla generale indisponibilità verso le ragioni dell’altro in caso di disaccordo o di conflitto, alla estesa – a tutti i livelli – considerazione della forza e della violenza come mezzo per sciogliere nodi complessi o per risolvere conflitti, alla diffusa rabbia per le fonti di sofferenza, possibilmente da eliminare dall’orizzonte della relazione, da sopprimere, alla violenza (verso le cose, verso gli altri, verso se stessi) anche come forma di comunicazione (della propria esistenza, del proprio malessere).

In questo scenario, che definisce condizioni e condizionamenti estesi a tutti, troppe volte ignorato nelle analisi e nelle considerazioni di senso comune, si possono poi considerare le specificità delle situazioni che caratterizzano i diversi contesti, ovvero quel piano che sta tra il macro e il micro, il piano “meso”, che rimanda alle differenze di condizioni e vissuti, ossia alle adolescenze e giovinezze nelle articolazioni che abbiamo richiamato all’inizio. È il piano che, dal punto di vista economico, sociale e culturale, definisce, per gli individui e i gruppi cui essi appartengono, le differenti posizioni nell’accesso alle opportunità di istruzione, formazione, occupazione, diritti di cittadinanza, ecc. In sintesi, determina in buona parte il tipo e l’entità del capitale sociale e culturale a disposizione dei singoli e gli ostacoli più o meno alti che si pongono alla loro realizzazione nella dimensione della vita lavorativa e sociale.

Al tempo stesso è il piano in cui si strutturano le forme più precise e “situate” di rappresentazioni sociali della realtà e con esse le spiegazioni di senso comune delle circostanze vissute, i giudizi sugli altri, gli orientamenti di azione considerati possibili, utili, inevitabili, giusti. È qui che si alimenta la percezione, oltre che delle opportunità, anche della natura degli ostacoli alla realizzazione e al benessere. A volte facendoli considerare insormontabili tanto che non possono esservi che scelte radicali di tipo aggressivo (individuali o agendo la dimensione di gruppo) o autodistruttivo (nella dimensione della solitudine, del ritiro, dell’annullamento).

Sotto questo profilo, le analisi sui fattori che alimentano le aggregazioni definite bande o gang giovanili e sui tratti che le caratterizzano non possono non evidenziare la marginalità (sociale e spaziale) e la conseguente carenza di opportunità di integrazione nel contesto sociale e lavorativo di chi ne è attratto. Per i giovani di origine straniera o di seconda generazione conta poi grandemente l’incerta definizione della propria identità laddove si percepisce l’ostilità diffusa, la discriminazione quotidiana, le forme più o meno aperte di razzismo. E questo anche nei contesti laddove vige lo jus soli come la Francia, dove è fortemente percepito lo scarto tra diritti di cittadinanza formalmente acquisiti e quelli sostanzialmente sperimentati, soprattutto come garanzia di accesso ai diritti sociali. Da qui la “disaffiliazione” sociale compensata da una forte affiliazione territoriale: la strada, il quartiere come spazio da occupare e/o difendere. In questo senso la banda non è un “corpo estraneo” a dinamiche sociali più estese poiché riflette tratti di quella cultura diffusa dominante che abbiamo sopra evocato (l’individualismo e, insieme, l’aggregazione tra simili contro i “nemici”, la violenza per risolvere i conflitti, il possesso di beni a ogni costo, l’esibizione dell’arricchimento, la proposta di una immagine di sé vincente), ma è anche espressione di specificità di un determinato contesto: le aree della periferia milanese o torinese, le cittadine di provincia, i quartieri ad alto tasso di povertà educativa e impregnati dalla cultura dell’illegalità delle città del sud, ecc.

In ognuno di questi contesti poi i singoli individui si orientano e agiscono in rapporto a quello che sociologicamente (e psicologicamente) rileva sul piano “micro”, ovvero attiene al piano delle relazioni interpersonali e dei vissuti individuali.

Non si possono infatti comprendere atteggiamenti e comportamenti di adolescenti e giovani se non si considera la fragilità e lo smarrimento di chi sta loro intorno, ossia degli adulti, in particolare di quelli che si trovano ad esercitare ruoli come quello educativo. È evidente che scontiamo, nel tempo presente, una lenta ma costante rottura degli “argini” costituiti dalle istituzioni educative (famiglia, scuola, altri contesti aggregativi) non solo nella trasmissione delle basi culturali, ma anche nei processi di socializzazione normativa e nella maturazione di orizzonti di senso (ad esempio il valore del rispetto dell’altro o della legalità).

Insieme sono sempre più evidenti le difficoltà nella comunicazione interpersonale profonda e significativa tra adulti e ragazzi, per cui è frequente, nelle relazioni, il non ascoltare e non essere ascoltati, il non comprendere e il non essere compresi. La percezione, da parte dei giovani, di non essere considerati da adulti troppo presi da propri problemi spiega l’assoluta e spesso esclusiva centralità delle relazioni orizzontali, della comunicazione tra pari, e dunque del loro ruolo (che può essere di sostegno, di giudizio, di rifiuto) nella determinazione della identità e della possibilità di “esistere” di ciascuno.

Le forme di devianza diffuse tra adolescenti e giovani, più che un tempo, paiono essere il riflesso di problemi di tipo relazionale e delle conseguenze che ne derivano sul piano dell’equilibrio psichico proprio nella fase in cui si è alla ricerca di una propria identità e, socialmente, di una autonomia e collocazione sociale. Le forme di allontanamento dalle norme, come dicevamo, sono in alcuni casi poco visibili in quanto forme “ripiegate” e nascoste; in altri casi sono, al contrario, altamente visibili e manifeste, e sono percepite come fortemente allarmanti per la frequente sproporzione tra agiti e le motivazioni che paiono esserne all’origine. I casi di reati gravi che hanno come protagonisti giovani ci fanno percepire che è molto frequente l’assenza di consapevolezza delle conseguenze e dei danni che un’azione può provocare e una sorta di incapacità di immedesimazione nelle vittime e nella sofferenza che esse possono provare. Esse sono spesso conseguenza della difficoltà di gestire le relazioni sia di tipo orizzontale (in particolare quando si sperimentano sentimenti di frustrazione e di abbandono), sia quelle con le figure educative di riferimento, sia – e ancor più – con chi rappresenta istituzioni e autorità. Una difficoltà che, al di là delle apparenze fatte di spavalderia e provocazioni, è segnale di smarrimento e di fragilità crescenti, cui si reagisce con agiti che le nascondono, giungendo fino al sopprimere le fonti della propria sofferenza incontrollata.

6. Investire in prevenzione e nella promozione di processi di integrazione e responsabilità

Interrogarsi sui fattori che condizionano la crescita delle nuove generazioni e alimentano il prodursi di problemi sociali e personali è premessa necessaria per il riflettere sul che fare. Molti sono gli impegni e gli investimenti opportuni e possibili se non si vuole ridurre tutto a mera repressione, come sembrano orientarsi le politiche prevalenti oggi in Italia (il decreto Caivano e il più recente decreto sicurezza sono lì a dimostrarlo). È possibile, a questo proposito, delineare alcune piste di lavoro, non senza due premesse.

La prima: è diffusa – a livello mediatico, ma anche di alcuni degli “addetti ai lavori” – la percezione di dover affrontare una “emergenza”. Come in ogni situazione di crisi dovuta a cambiamenti delle modalità di porsi dei problemi e delle caratteristiche delle persone che ne sono portatrici, si può provare smarrimento e senso di impotenza e cercare scorciatoie, affidandosi al senso comune che storicamente, nel campo delle problematiche sociali, vede quasi sempre come soluzione il ricorso all’uso dello strumento penale, alla repressione e alla separazione e gestione in istituzioni totali delle persone che ne sono protagoniste (così trasformando ancor più il carcere in una “discarica sociale”).

Se invece si adotta uno sguardo “lungo”, lo sguardo di chi da tanti anni si confronta con un problema o una questione, possiamo dire che sempre e ovunque ci confrontiamo con cambiamenti e dunque novità, ma anche con persistenze e ricorrenze. Questo ci permette di relativizzare il contingente e di attingere alle esperienze del passato (o di altri contesti che prima di noi hanno sperimentato problemi analoghi) e ai modi in cui si è stati capaci di affrontarli per trovare i modi di gestire il presente e di guardare avanti, sempre sapendo innovare approcci e metodi. Si può così fare di una situazione di crisi una occasione e una opportunità di cambiamento e di crescita.

La seconda premessa: si deve cogliere appieno – oggi come sempre in passato – la complessità della questione devianza minorile e dunque sollecitare la responsabilità di tanti, delle istituzioni e della società civile, ovvero, delle “città” (in senso ideale e di comunità), chiamando a raccolta e mettendo in rete risorse e competenze, non lasciando soli gli operatori della giustizia, delegando loro di gestire i minorenni che entrano in contatto con il penale con i soli strumenti del contenimento e del controllo.

Se si condividono queste prospettive si può provare a delineare un orizzonte di impegni e di lavoro che si possono utilmente collocare su due piani: la prevenzione, operando sulle condizioni e sui vissuti che inducono alle diverse forme di devianza, e il sostegno al superamento delle difficoltà quando siano oggetto dell’attenzione e della reazione sociale e istituzionale, in particolare delle istituzioni penali.

1. Operare per la prevenzione significa impegni su più fronti. Sul piano generale, se si coglie il nesso tra comportamenti degli individui e le condizioni e i condizionamenti strutturali e culturali (il piano macro di cui abbiamo detto) è evidente che una profonda riflessione e profondi cambiamenti si impongono per costruire un futuro delle nostre società non segnato da così estese contraddizioni e problemi. Così come sono strumenti di prevenzione la cura dei territori, la difesa e la rivitalizzazione delle politiche di welfare, la lotta alle forme di emarginazione ed esclusione e la promozione dell’inclusione sociale e lavorativa dei giovani e dei diritti di cittadinanza di tutti.

Più puntualmente, molte sono le cose che in concreto possono essere oggetto di iniziative e impegni. Ad esempio, per i ragazzi e le ragazze che vivono in famiglia (italiani, ricongiunti, seconde generazioni), appare indispensabile prendersi cura e sostenere nelle loro difficoltà educative, sempre più evidenti a tutti, le figure di adulti che li hanno in carico, attraverso servizi “dedicati” e accessibili di ascolto, consulenza, accompagnamento. Insieme si pone l’esigenza di sostenere fattivamente – con più personale, risorse specialistiche di supporto (educatori, psicologi, mediatori, neuropsichiatri, ecc.), formazione permanente e supervisione – le scuole e gli insegnanti nel loro compito di istruzione, ma anche educativo nei confronti proprio dei ragazzi e delle ragazze in maggiore difficoltà, quelli che più sono a rischio di allontanamento e di devianza, nonché delle loro famiglie.

Per le tante situazioni in cui ragazzi e giovani sono considerati come responsabili di insicurezza sociale nelle strade e nei quartieri, investire in prevenzione significa porre attenzione alle modalità, ai luoghi (le strade e le piazze, i luoghi di aggregazione cosiddetti “naturali”, ma anche quelli “virtuali”), agli strumenti in grado di incontrare – prima del verificarsi di reazioni istituzionali o penali – il disagio esistenziale e sociale di questi ragazzi. Le molte esperienze delle unità che operano sul territorio (educative di strada e di comunità, servizi di accoglienza “a bassa soglia”, con équipes miste di educatori, mediatori, psicologi) mostrano che è possibile incontrare i ragazzi – soprattutto quelli senza supporti famigliari come i minori stranieri non accompagnati – nei loro contesti di vita, “agganciarli” per offrire prospettive di resilienza, in termini di crescita equilibrata e realizzazione delle proprie aspirazioni. Per affrontare con loro – responsabilizzandoli e rendendoli protagonisti di attività e progetti – le difficoltà legate alle condizioni di vita, ai consumi, alle interazioni con situazioni di sfruttamento.

Proprio quelle esperienze di équipe di educative di strada e di comunità e di servizi a bassa soglia, vanno rafforzate ed estese, mettendo in campo le migliori competenze professionali (relazionali, comunicative, progettuali) necessarie. Senza dimenticare, ogni volta che si verificano, di denunciare e lottare contro le diverse forme di sfruttamento dei minorenni (prostituzione, spaccio, lavoro nero, ecc.), accogliendo chi ne è vittima e sottraendolo alle condizioni loro imposte da reti di criminalità organizzata o da contesti relazionali vincolanti.

2. Laddove si siano manifestati comportamenti che suscitano le reazioni istituzionali, si pone oggi con forza l’esigenza dell’impegno di perseguire percorsi di responsabilizzazione e di integrazione sociale attraverso il lavoro congiunto dei servizi della giustizia, dei servizi socio-sanitari del territorio, delle risorse e disponibilità presenti nelle comunità locali. Si pone cioè il problema di difendere lo spirito e la lettera del processo penale minorile come è stato praticato in Italia per più di trent’anni, con risultati assolutamente positivi[16]. In particolare occorre difendere i principi della “residualità” del ricorso al carcere e della centralità assoluta attribuita ai servizi e ai progetti che si costruiscono fuori e oltre i luoghi e i momenti di privazione della libertà. E questo, nella consapevolezza che, a fronte di una utenza che presenta modalità di porsi nei confronti delle istituzioni e degli operatori diverse rispetto al passato, sia necessario e opportuno un momento di ripensamento, sostenuto da confronti tra operatori e con la magistratura e da mirati momenti formativi, sui significati e sulle pratiche relative alla presa in carico, sulle messe alla prova, sul rapporto tra sostegno e controllo, sugli strumenti utili per gestire la complessità e le criticità che si presentano.

Come sempre, guardando alle esperienze più positive sperimentate in tanti anni, permane la necessità di coinvolgere con intelligenza il territorio, di attivare disponibilità di famiglie e di contesti di accoglienza, di responsabilizzare le comunità migranti di appartenenza dei ragazzi di origine straniera, di rinnovare e rendere fruibili a questi ragazzi “difficili” i percorsi di formazione professionale, di promuovere sensibilità nel mondo del lavoro e delle imprese per dare loro opportunità reali di integrazione e la possibilità di pervenire, nel tempo, ad esercitare pieni diritti di cittadinanza.

7. Una diversa narrazione

Abbiamo parlato, all’inizio, delle rappresentazioni, quasi sempre negative e allarmistiche degli adolescenti e dei giovani. In particolare quando si rendono protagonisti di comportamenti devianti, di reati o di violenza. Ciò che non si considera sufficientemente sono gli effetti “perversi” di queste rappresentazioni sugli stessi adolescenti e giovani che ne sono protagonisti in termini di perdita di fiducia negli adulti e nelle possibilità di essere considerati diversi, magari migliori.

Paradigmatico è il caso dell’ossessivo riferimento alla presenza, nei territori, delle cosiddette baby gang, raccontate e descritte in modi che non di rado ne esaltano le gesta e ne potenziano il fascino provocando forme di emulazione, sollecitando la riproduzione degli atti così ben raccontati e illustrati con tutti i dettagli sensazionalistici e inducendo l’esibizione di sé, da parte di altri ragazzi, in pose, atteggiamenti, look dei protagonisti di quei racconti. Nei contesti virtuali e/o nella realtà attraverso agiti emulativi.

Diverse ricerche[17] da tempo hanno dimostrato che la rappresentazione enfatica dei gruppi definibili come gang o bande giovanili, determina un accrescimento dello status reputazionale dei protagonisti e soprattutto dei loro leaders, da cui deriva fascinazione e possibilità di reclutamento di più giovani. Anche la condanna pubblica, senza considerazione dei condizionamenti, delle carenze, delle difficoltà e dei bisogni sperimentati, ha effetti di rinforzo dell’orientamento alla devianza attraverso i noti processi di “neutralizzazione” della rilevanza e della gravità dei propri agiti: le razionalizzazioni, le negazioni, le giustificazioni che si condividono con gli altri che sono oggetto dello stesso trattamento. Con i rischi, come insegna la teoria della reazione sociale e dell’etichettamento[18], di devianza secondaria, nella reiterazione dei comportamenti, di aggregazione esclusiva con i simili, di possibili “carriere” devianti, rinforzate da esperienze di istituzionalizzazione e carcerazione.

Da tutto questo dovrebbe discendere il considerare importante, per chi studia e osserva fenomeni e politiche, il contribuire a una “narrazione” pubblica equilibrata e costruttiva, impegnandosi a raccogliere adeguatamente e condividere dati capaci di rappresentare, seriamente e quanto più possibile oggettivamente, la situazione, senza enfasi su presunte emergenze e allarmi da situazioni fuori controllo, sul territorio e nelle istituzioni. Si tratta cioè di valorizzare le conoscenze dal basso, le storie e i vissuti dei protagonisti e quelle degli operatori, facendo parlare i ragazzi, dando loro la parola anche con l’uso di linguaggi diversi (pensiamo al teatro, al rap, ai video, all’uso costruttivo dei social). Si potrebbero così opportunamente evidenziare differenti condizioni e condizionamenti cui sono sottoposti i minorenni e i giovani adulti, le loro problematiche personali e relazionali, i vincoli cui sono sottoposti, legati ai diversi percorsi esistenziali, ma anche – in positivo – il loro bagaglio di sentimenti, aspirazioni, valori, risorse, competenze, potenzialità. Insieme potrebbero trovare valorizzazione le esperienze positive, le storie connotate da una evoluzione in direzione dell’equilibrio personale e dell’integrazione sociale, frutto di impegni dei soggetti, ma anche del lavoro di tanti operatori, in contesti diversi, lavoro che non viene quasi mai raccontato.

Può esser questo un terreno di impegno proprio da parte degli operatori che questi adolescenti e giovani incontrano e cui offrono, in servizi di prossimità o di accoglienza, opportunità e prospettive alternative a quelle cui rischiano di essere condannati. Un impegno a elaborare e diffondere “narrazioni” e analisi diverse, sollecitando e pretendendo dai media mainstream approfondimenti con inchieste serie, rinuncia alla spettacolarizzazione gratuita, divulgazione di dibattiti che diano voce a esperti e protagonisti.

Non è certo facile fare concorrenza ai messaggi semplificatori dei media dominanti, ma non è impossibile con un impegno che parta da una costante insistenza su parole adeguate, contenuti corretti (con attenzione e valorizzazione dei dati descrittivi di realtà spesso nascoste), messaggi efficaci e utilizzo sapiente dei nuovi media. Diventando cioè capaci di avvalersi, in maniera ragionata ed efficace, degli stessi strumenti comunicativi che oggi sono alla portata di tutti.

In un’epoca in cui la comunicazione è decisiva, anche l’impegno di chi opera per la prevenzione e la presa in carico delle situazioni più problematiche dovrebbe essere oggetto di messaggi chiari e positivi che pongano all’attenzione dell’opinione pubblica le ragioni e i contenuti di progetti che esprimono e manifestano apertamente una visione ideale e “politica” dei rapporti tra i territori e tutti coloro che li abitano, anche i ragazzi più problematici. E questo non per generico “buonismo”, ma per convenienza di tutti, dal momento che i minorenni e i giovani i cui comportamenti e le cui azioni sollecitano le istituzioni della giustizia penale sono e saranno – in forme diverse – parte integrante delle nostre comunità, abitano e abiteranno i nostri territori: dare loro opportunità di allontanamento da situazioni favorenti reati e devianza e il rischio recidiva è nell’interesse di tutti.

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  • Togni F., L’ invenzione dell’adolescenza. Ritualità, pudore, tenerezza e “adultità ritardata”, Studium, Roma, 2015.

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note

[1] Saitta P., Violenta speranza. Trap e riproduzione del panico morale, Ombre Corte, Bologna, 2023.

[2] Mauceri S., Di Censi L. (a cura di), Adolescenti iperconnessi: un’indagine sui rischi di dipendenza da tecnologie e media digitali, Armando Editore, Roma, 2020.

[3] Queirolo Palmas Luca (a cura di), Atlantico latino: gang giovanili e culture transnazionali, Carocci Editore, Roma, 2010.

[4] Pecorelli V., Giubilaro C., El nost Milan: il rap dei ‘nuovi italiani’, tra riappropriazioni urbane e rivendicazioni identitarie, in Rivista geografica italiana, CXXVI, 4, 2019, pp. 21-42.

[5] Bagnato K., L’hikikomori: un fenomeno di autoreclusione giovanile, Carocci Editore, Roma, 2017.

[6] Le Breton D., Passione del rischio, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1995; Id., Sociologia del rischio, Mimesis, Milano-Udine, 2017.

[7] Prina F., Forme della devianza giovanile. Percorsi di illegalità e normalità della violenza: due ricerche a Torino, Edizioni Sonda, Milano, 2000.

[8] Marchi V., Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, Red Star Press, Roma, 2014.

[9] Crocitti S., Selmini R., Bande e gruppi giovanili di strada. Prospettive teoriche, approcci interdisciplinari e ricerca empirica, Franco Angeli, Milano, 2025.

[10] Prina F., Gang giovanili. Perché nascono, chi ne fa parte, come intervenire, Il Mulino, Bologna, 2019; Maggiolini A. (a cura di), Non solo baby gang. I comportamenti violenti di gruppo in adolescenza, Franco Angeli, Milano, 2025.

[11] Il richiamo obbligato è, ancora oggi, al famoso testo di A.K. Cohen (Delinquent boys. The culture of the gang, pubblicato negli USA nel 1955 e in Italia nel 1963 e, recentemente, in una nuova traduzione e redazione: Ragazzi delinquenti. La cultura delle gang, PM Edizioni, Varazze, 2024).

[12] Prina F., Prefazione alla nuova edizione italiana, in Cohen A. K., Ragazzi delinquenti, cit.

[13] Togni D., Ragazze trasgressive in cerca d’identità. Teoria e ricerca sulla devianza giovanile femminile, Franco Angeli, Milano, 2013.

[14] Prina F., Devianza e criminalità. Concetti, metodi di ricerca, cause, politiche, Carocci Editore, Roma, 2019.

[15] Prina F., Devianza e politiche di controllo. Scenari e tendenze nelle società contemporanee, Carocci Editore, Roma, 2003.

[16] Prina F., Oltre la crisi e il mero contenimento: Un rinnovato impegno per le comunità locali, in Antigone, Anno XVIII, n. 2, 2023, numero monografico a cura di V. Scalia, Il sistema penale minorile alla prova del populismo penale.

[17] Tra tante, Sánchez-Jankowski M., Les gangs et la presse. La production d’un mythe national, in Actes de la recherche en sciences sociales, 101-102, 1994, pp. 101-118.

[18] Becker H.S., Outsiders. Studi di sociologia della devianza, Meltemi, Milano, 2017; Lemert E.M., Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Meltemi, Milano, 2019.

[18] Becker H.S., Outsiders. Studi di sociologia della devianza, Meltemi, Milano, 2017; Lemert E.M., Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Meltemi, Milano, 2019.

Adolescenze – Rivista Transdisciplinare
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