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10 Novembre 2025
Pietro Buffa

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Quando l’abito fa il monaco ed il messale non vale più per tutti: alcune considerazioni relative alla crisi del sistema penale e penitenziario minorile

SOCIOLOGIA

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Fascicolo 2

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Abstract Italiano

Gli istituti penali minorili italiani, da qualche anno, ospitano una popolazione che rappresenta, indirettamente, il frutto amaro di alcune questioni irrisolte che caratterizzano questo Paese. Questioni che l’assediano dall’esterno e lo dilaniano dall’interno senza che si sia riusciti a trovare soluzioni adeguate e dignitose ma che, anzi, hanno rinforzato derive populiste abbisognevoli di nemici per crescere e consolidarsi. Tale incapacità genera malesseri ed iniquità sociali che fanno da sfondo all’esclusione penale, sia di adulti che di minori, che da qualche tempo si connota in termini sempre più repressivi, segno di una involuzione nel pensiero relativo alla funzione penale. La perdita di efficacia delle attività trattamentali nei confronti di questi giovani detenuti, in ragione dell’incapacità di aggiornarle e renderle coerenti ai loro profili e bisogni, rinforza paradossalmente la repressione nei loro confronti.

Abstract English

For some years now, Italian juvenile penal institutions have been home to a population that represents, indirectly, the bitter fruit of some unresolved issues that characterize this country. Issues that besiege it from the outside and tear it apart from the inside without being able to find adequate and dignified solutions but which, on the contrary, have reinforced populist drifts in need of enemies to grow and consolidate. This inability generates social malaise and inequity that are the background to the criminal exclusion, both of adults and minors, which for some time has been characterized in increasingly repressive terms, a sign of an involution in the thought relating to the penal function. The loss of effectiveness of the treatment activities towards these young prisoners, due to the inability to update them and make them consistent with their profiles and needs, paradoxically reinforces the repression against them.

Abstract Français

Depuis quelques années, les établissements pénitentiaires pour mineurs italiens abritent une population qui représente, indirectement, le fruit amer de certaines questions non résolues qui caractérisent ce pays. Des dossiers qui l’assiègent de l’extérieur et le déchirent de l’intérieur sans pouvoir trouver de solutions adéquates et dignes mais qui, au contraire, ont renforcé des dérives populistes en mal d’ennemis pour grandir et se consolider. Cette incapacité génère un malaise social et une iniquité qui sont à l’origine de l’exclusion pénale, tant des adultes que des mineurs, qui est caractérisée depuis un certain temps en termes de plus en plus répressifs, signe d’une involution dans la pensée relative à la fonction pénale. La perte d’efficacité des activités de traitement à l’égard de ces jeunes détenus, due à l’incapacité de les mettre à jour et de les rendre cohérentes avec leurs profils et leurs besoins, renforce paradoxalement la répression à leur encontre.

Abstract Español

Desde hace algunos años, las instituciones penales juveniles italianas albergan una población que representa, indirectamente, el fruto amargo de algunas cuestiones no resueltas que caracterizan a este país. Cuestiones que la asedian desde fuera y la desgarran desde dentro sin poder encontrar soluciones adecuadas y dignas pero que, por el contrario, han reforzado derivas populistas necesitadas de enemigos para crecer y consolidarse. Esta incapacidad genera malestar social e inequidad que son el trasfondo de la exclusión penal, tanto de adultos como de menores, que desde hace algún tiempo se ha caracterizado en términos cada vez más represivos, signo de una involución en el pensamiento relacionado con la función penal. La pérdida de efectividad de las actividades de tratamiento hacia estos jóvenes reclusos, debido a la incapacidad de actualizarlos y hacerlos coherentes con sus perfiles y necesidades, paradójicamente refuerza la represión en su contra.

SOMMARIO:
1. Fogge autoritarie e posture autorevoli – 2. Dentro la crisi alla ricerca dei suoi nodi essenziali – 3. Non tornano più i conti – 4. In conclusione, si fa per dire

1. Fogge autoritarie e posture autorevoli

Ci sono questioni che sono sintomatiche dei tempi che ne fanno da sfondo. Tempi indubbiamente complessi, densi di preoccupazioni sui mille fronti che, direttamente o indirettamente, ci riguardano.  Al punto che la nostra attenzione ne risulta troppo sfidata per potersene occupare adeguatamente, valutandone gli aspetti inerenti le cause scatenati e le conseguenze future.

Per quello che ci riguarda mi vorrei soffermare sul discusso provvedimento del Capo del Dipartimento Minorile e di Comunità adottato nell’autunno del 2024, al fine di prescrivere l’utilizzo dell’uniforme di servizio nelle strutture detentive per minorenni[1], andando così a sovvertire il fatto che, fino a quel momento, il personale di polizia per decenni aveva vestito in borghese per ridurre la distanza relazionale con i minori a loro affidati e facilitare così il rapporto educativo.

Subito si sono levate le voci del dissenso. L’Associazione Antigone, per il tramite della sua Coordinatrice nazionale, Susanna Marietti, ha interpretato e bollato tale decisione come la volontà di «segnare anche simbolicamente […] che pure verso i ragazzini ci vuole un carcere distante ed autoritario […] un altro tassello di cultura repressiva che vince su quel buon senso di cui era impregnato il sistema della giustizia minorile e che ha sempre dimostrato di essere efficace nel reintegrare socialmente i ragazzi»[2].

Qualche settimana dopo Il Partito Democratico ha presentato una interrogazione parlamentare rivolta al Ministro della Giustizia per ottenere chiarimenti sul punto[3].

Per quanto si rischi la pedanteria, è interessante analizzare i quesiti e le considerazioni poste dagli interroganti e le risposte che il rappresentante del Governo ha dato, perché ben testimoniano come vengono affrontate le questioni penitenziarie minorili.

Due sostanzialmente le domande poste. La prima diretta a comprendere se il Ministro della Giustizia fosse a conoscenza della circolare e se non la ritenesse in contrasto con la fonte che regola la materia delle uniformi del personale di polizia penitenziaria del contingente della giustizia minorile, in questo caso il Decreto Ministeriale del 24 febbraio 2004[4].

La seconda se non ritenesse che quanto così disposto rappresentasse una omologazione del sistema della giustizia minorile al sistema penitenziario per gli adulti evidenziandosene, quindi, un intento di natura autoritaria e repressiva.

La risposta data dal Rappresentante del Governo è un papocchio giuridico-amministrativo che nega il contrasto paventato sostenendo giuridicamente l’insostenibile. In sostanza, omettendo che il comma 3 dell’articolo 2 del citato Decreto Ministeriale chiaramente prescrive che quando tale personale svolge «servizi continuativi a diretto contatto con detenuti» minori debba indossare «l’uniforme ordinaria di servizio» di cui al comma 2 dell’articolo 1, definito un«insieme organico di vestiario a foggia civile»[5], afferma, viceversa, che questo debba indossare l’uniforme ordinaria di servizio prevista dal comma 1 del predetto articolo 1.

Ci si rende conto che l’incrocio di articoli e commi può apparire una sorta di scioglilingua giuridico ma il confronto tra le norme non può risultare così difficoltoso al punto da giustificare un “abbaglio” tecnico di tale portata.

D’altra parte, almeno fino al 2014 e qualcuno si spinge fino al 2020, al contingente minorile venivano fornite due dotazioni di uniformi: quella comune per tutto il Corpo, costituita dalle uniformi ordinarie, di servizio ed operative e, in aggiunta, a differenza del contingente operante negli istituti per adulti, le suddette uniformi ordinarie a foggia civile.

Occorre dire che, al di là delle forniture effettuate, il taglio di tali uniformi non è mai stata apprezzato dal punto di vista estetico e di comodità e, come spesso succede, il loro uso si è via via andato a perdere preferendo gli operatori indossare i propri abiti borghesi sino a divenire una prassi consolidata fondata, tuttavia, su una norma che, nella sua ratio, pone attenzione agli effetti che una divisa di foggia militare determina nella relazione umana.

È per tale motivo che da decenni il personale che opera a contatto con i minori detenuti veste in borghese, non per una colossale svista normativa.

Altrettanto vero è che il decreto in questione non è mai stato abrogato[6], tanto che viene citato nel preambolo dello stesso provvedimento in questione, e questo apre ad una serie di considerazioni conseguenti.

La prima riguarda il fatto che, volendo rimanere sul piano strettamente formale, su tale fallace interpretazione poggia la prima delle dovute risposte ovvero che nessun contrasto si rileverebbe nel provvedimento del Capo del Dipartimento rispetto al Decreto Ministeriale costituendone, semmai, una “legittima specificazione”.

In realtà così non è.

Stando alle norme citate il provvedimento del Capo del Dipartimento ha cancellato la prescrizione imposta dal Decreto Ministeriale che prevede l’uso di una “uniforme ordinaria a foggia civile” e non quella ordinaria “nei servizi continuativi a contatto con i minori detenuti”.

Considerato che giuridicamente questo non rispetta il principio gerarchico delle fonti, la diretta conseguenza è quella di doversi affermare che il provvedimento è gravato da un vizio di incompetenza, perché un decreto ministeriale può essere modificato solamente da un atto di pari valore sottoscritto, quindi, dal Ministro in persona.

È possibile che quest’ultimo non ne fosse a conoscenza? E se ne fosse stato messo a conoscenza perché avrebbe dovuto lasciar fare senza intervenire in prima persona? Credo che pochi siano nelle condizioni di poter rispondere a queste domande ma, in un caso come nell’altro, quello che conta è che il provvedimento ha assunto questa forma apparentemente caratterizzata da una sorta di sciatteria istituzionale.

La seconda considerazione che viene spontanea parte dalla constatazione che, non trattandosi di una legittima specificazione di una norma di rango superiore, l’atto è non solamente entrato in contrasto con quest’ultima, ma ha introdotto un diverso approccio formale e relazionale all’interno degli istituti penali per minorenni.

È evidente che il decreto ministeriale “violato” aveva inteso affermare che l’interpretazione del ruolo del personale a diretto contatto con i minori passasse anche dalla riduzione della “distanza” che una divisa di foggia militare determina. Ancora da ultimo Vittorino Andreoli ha sottolineato che indubbiamente l’abito e il modo di presentarsi, contribuisce alla tendenza di evitare e non certo avvicinarsi, ma ancor più di essere avvicinato, da parte delle Forze dell’ordine[7].

La cancellazione di tale prescrizione è evidentemente il segno di una totale riconsiderazione di questo principio e, allo stesso tempo, potrebbe costituire il presupposto per disegnare un nuovo rapporto tra il personale e i minori in carcere proprio a partire dall’impatto percettivo dato dall’uniforme indossata.

Il tono rassicurante del Rappresentante del Governo non mette in crisi queste ipotesi. Le sue risposte offrono uno spaccato delle questioni che stanno a fondamento della contestata decisione. Seguendo il filo del discorso verbalizzato in Aula apprendiamo che il provvedimento, «lungi dal costituire espressione di un’impostazione autoritaria da parte del Dipartimento di Giustizia Minorile ha rappresentato, invece, il frutto di un’attenta riflessione, volta a perseguire e a dare concreta attuazione ai principi fondamentali del procedimento penale e dell’ordinamento penitenziario minorile, in un’ottica volta alla rieducazione e alla risocializzazione».

Il provvedimento, pertanto, si caratterizzerebbe, sempre a dire del relatore, per un “bilanciamento” tra più esigenze.

Da un lato «restituire autorevolezza al contingente di personale di polizia penitenziaria assegnato al settore minorile assicurando sicurezza e legalità all’interno degli istituti di pena minorili».

In tal senso l’uso della divisa favorirebbe e riaffermerebbe «una corretta percezione del valore e del significato della pubblica funzione svolta dal personale di Polizia penitenziaria da parte dei detenuti negli istituti minorili».

Non a caso, nel preambolo del provvedimento, si parla «dell’esigenza di favorire una corretta introiezione da parte dei soggetti detenuti […] in ordine al valore e al significato della pubblica funzione svolta dal personale di Polizia Penitenziaria».

Per inciso, sarà forse una suggestione dovuta all’età ma la possibilità di introiettare qualcosa per il tramite di una divisa ci ricorda l’immagine collodiana, non certo modernissima, di Pinocchio tra i due Carabinieri quale utile e simbolica esperienza per ritrovare la retta via.

Dall’altro lato, continua il Relatore, risponderebbe al bisogno di «portare la polizia penitenziaria ad una maggiore consapevolezza del ruolo istituzionale svolto, visto che l’uniforme rappresenta e simboleggia la fedeltà costituzionale e i connessi doveri giuridici di correttezza deontologica e legalità».

Se leggiamo in filigrana tali affermazioni si configura la percezione, da parte dei vertici della Giustizia Minorile, di un sistema penitenziario minorile in crisi anche per la mancanza di autorevolezza del suo personale, non pienamente consapevole del suo ruolo e dei doveri ad esso connessi. La stessa Onorevole Di Biase lo rimarca, in sede di replica, al Sottosegretario delegato alla risposta all’interpellanza citata.

A quanto pare è una condizione percepita dagli stessi detenuti se ci si trova costretti a dover riaffermare loro, attraverso l’introduzione formale di una uniforme di foggia militare, il valore ed il significato della pubblica funzione svolta da quel personale.

È la visione di un sistema al collasso che stenta, non solo a svolgere il suo ruolo, ma anche a mantenere l’ordine interno.

Indubbiamente siamo di fronte ad uno swicht epocale adottato repentinamente se solo consideriamo che la nota di accompagnamento del provvedimento si premura di raccomandare alle Direzioni degli istituti dipendenti di richiedere, «con la massima urgenza», la fornitura delle uniformi laddove il personale ne fosse sprovvisto. Si è quindi ben coscienti che questo ben potrebbe essere atteso che per decine d’anni quel personale ha prestato servizio in borghese.

È una reazione ad un clima emergenziale affrontato non tanto con quello che Basaglia avrebbe definito un «pensiero lungo»[8], quanto con il respiro corto dell’urgenza e la consapevolezza di non riuscire a gestirla con altri strumenti.

Anche se il Rappresentante del Governo, al termine del suo intervento, ha tenuto a ribadire che la decisione di adottare l’uniforme ordinaria «non può essere interpretata come un processo di omologazione tra il sistema della giustizia minorile e il sistema penitenziario per adulti» è pur vero che in questi ultimi anni, contrassegnati da decine di eventi particolarmente critici quali evasioni individuali e collettive, rivolte e conseguenti danneggiamenti, aggressioni al personale, addirittura violenze sessuali all’interno delle celle perpetuate da compagni di detenzione o tentate dallo stesso personale, tutti fatti che parevano relegati alle cronache degli anni ’70, le risposte connotate da elementi prevalentemente sanzionatori e deterrenti sono aumentate e il parallelismo omologante con il carcere degli adulti si è fatto più forte.

2. Dentro la crisi alla ricerca dei suoi nodi essenziali

Crediamo che la questione meriti un’analisi più articolata ritenendo la decisione presa sintomatica di un processo che parte da lontano, rispetto al quale non riteniamo che ci si possa limitare a pensare che tornando indietro su alcune decisioni il sistema minorile possa riprendere il “lustro” che lo ha caratterizzato per lunghi anni.

Eppure, leggendo quanto prevalentemente pubblicato sull’argomento, si ha la netta sensazione che, di fronte allo sgomento prodotto da un sistema così in crisi, la tentazione di “tornare da qualche parte indietro” colga, per direzioni ovviamente diverse, sia la parte che istituzionalmente ora ne ha la responsabilità, sia le voci che svolgono la funzione di contrappunto critico.

Che ci sia aria di repressione è evidente, e questo è un vecchio modo di affrontare la rabbia penitenziaria, superato negli anni ’80 ma ora riproposto.

Da questo occorre partire per proporre un cambiamento, ma il sentore che sia sufficiente ripristinare alcune prassi pregresse per ovviarvi non pare altrettanto realistico, anche se si rintraccia in alcune affermazioni peraltro di commentatori tra i più critici.

Ne è un esempio la dichiarazione della Presidente di Antigone Lombardia dopo i fatti che hanno portato, nell’aprile del 2024, all’arresto di 13 agenti e alla sospensione dal servizio di altri 8 per una serie di reati violenti perpetuati nei confronti di minori detenuti presso l’IPM Beccaria di Milano, ormai definito come il simbolo cristallizzato della crisi del settore penale minorile[9].

Commentando diversi episodi di violenza ed evasione posti in essere, da questi ultimi, nei mesi successivi agli arresti del personale, tali eventi sono stati definiti «una spia che mostra come la situazione non sia ancora del tutto rientrata all’interno di un istituto ancora convalescente». Una crisi rispetto alla quale, ha chiosato Verdolini, «ci vorrà del tempo per ricostruire un rapporto di fiducia con i detenuti»[10].

Manca, a nostro modo di vedere, una riflessione più puntuale sulle dinamiche che possono aver generato la violenza inusitata del personale e semplicistico ci pare imputare la rabbia dei minori al venir meno del grado di fiducia di questi rispetto all’istituzione.

In un periodo storico nel quale la fiducia nelle istituzioni è ai minimi storici, come immaginare che questi minori, con traiettorie di vita già molto complesse e deprivate, la possano nutrire nei confronti di quella penitenziaria?

In tale situazione non è solamente una questione di tempo il superamento di una crisi così profonda.

Eppure quest’ultima è conosciuta e descritta da anni, anche nei suoi minimi particolari. Quello che ci pare poco curato è l’ordine temporale e fattuale dei fattori che vi intervengono. Se è giusto indignarsi in corrispondenza alla decisione di obbligare il personale a vestire le uniformi, essendosi resi conto della deriva repressiva che rappresenta, perché non costruire adeguatamente lo storyboard in modo da cercare di ovviare alle soluzioni più repressive che altro non fanno che intervenire sugli effetti e non sulle cause?

Aleggia un eccessivo rischio di semplificazione uguale, seppur di segno contrario, a quello che fa da sfondo agli interventi di tipo repressivo che hanno preso forma nell’ultimo periodo.

Non è cosa nuova. Per anni, nel mondo penitenziario per adulti, si è sentito parlare di “carcere carcerogeno” per giustificare i tassi di recidiva abnormi che caratterizzano le persone che scontano integralmente le loro pene in carcere e che stridono con quelli, molto più limitati, di coloro i quali le scontano in misura alternativa, dimenticando, innanzitutto, che sono le leggi penali e le condizioni personali sfavorevoli ad essere “carcerogene”. 

Questa narrazione, tuttavia, ne ha costantemente supportato un’altra secondo la quale la maggiore previsione di misure alternative avrebbe ridotto il carcere. 

Le misure alternative al carcere, nel settore degli adulti, sono state incrementate e le persone che ne stanno fruendo superano ormai le 95.000 unità, una misura di gran lunga superiore a quella delle persone detenute che però, nel frattempo, sono anch’esse aumentate in misura esponenziale[11], segno evidente che le tali misure non sostituiscono la detenzione, semmai ampliano il controllo penale che è aumentato in ragione della legislazione adottata e che si orienta verso due popolazioni tra loro ben distinte.

La prima, quella più fragile e marginale, alla quale sono destinate le misure penali più restrittive in ragione del fatto che non riesce a mostrare di possedere le caratteristiche di tenuta ed affidabilità per ottenere le misure alternative alla mera detenzione. La seconda, più forte in termini di risorse a disposizione, che grazie a tale dotazione viene indirizzata con maggiore probabilità di successo alle misure esterne al carcere.

Vedremo di seguito come tale meccanismo caratterizzi anche il contesto minorile e costituisca un punto essenziale per qualunque proposta di cambiamento.

Nel frattempo ciò che preme è continuare a ragionare sull’atteggiamento di fondo che, a nostro parere, pecca di semplificazione. Prendiamo lo stesso comunicato di Susanna Marietti[12], citato nell’interrogazione parlamentare del Partito Democratico.

L’Autrice, indubbiamente tra le più esperte ed impegnate nel settore, per indicare i destinatari degli effetti del provvedimento adottato dal Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità e stigmatizzarne il tono repressivo, si lasca sfuggire l’appellativo di “ragazzini”.

Sia chiaro, chi scrive stigmatizza quel provvedimento in egual modo, convinto dell’intento autoritario che lo caratterizza, ma se si vuole comprendere i presupposti e la logica che sta dietro alla deriva repressiva per tentare di depotenziarla, allora occorre ragionare su quel diminutivo che rimanda ad una semplificante visione delle vite dei minori di cui stiamo parlando.

I ragazzini in questione non possono non essere considerati anche dal punto di vista della complessità che incarnano che li rende, spesso, estranei alle lance spuntate dell’attuale modello pedagogico, o presunto tale, praticato.

Una valutazione del rischio di recidiva condotta su 103 minori maschi (italiani, nomadi e stranieri) sottoposti a procedimenti penali nei Servizi della giustizia minorile di Milano (Centro di prima accoglienza, Ufficio di servizio sociale ed il Beccaria) ha evidenziato che il 54.1% aveva un rischio alto di recidivare, il 25.1% un rischio medio e il 20.8% un rischio basso. A due anni di distanza dalla presa in carico il 32% aveva subito un altro procedimento penale e, tra questi, coloro i quali erano stati prognosticati con un elevato rischio avevano effettivamente recidivato nella misura del 44%. Nella revue introduttiva condotta su studi condotti negli anni ’90 si evidenzia come la probabilità che un adolescente che entra nel circuito penale possa commettere un nuovo reato è, in genere, molto elevata con stime che vanno dal 45.4% al 96%[13].

Più recentemente un altro studio condotto su un campione nazionale ha evidenziato una recidiva pari al 31%. Nella circostanza, tuttavia, è chiaramente emerso che gli stranieri recidivano più degli italiani in una misura pari al 46%, contro il 28% di questi ultimi, e le loro caratteristiche biografiche e sociali hanno un’importanza fondamentale perché si connettono ad una condizione più ampia di irregolarità, di clandestinità e dunque di svantaggio. La ricerca ha altresì evidenziato che un minore condannato recidiva di più (63%) di un minore destinatario della misura della sospensione del processo e messa alla prova (22%). Più in generale frequentare la scuola, fruire di sane opportunità di tempo libero, svolgere attività di solidarietà, avere un lavoro, abbassa il rischio di recidiva. Anche avere una famiglia normodotata e funzionale abbassa tale rischio che, tuttavia, aumenta se in famiglia ci sono componenti con precedenti penali[14].

Si consideri che gli studi in questione sono stati condotti in periodi meno complessi dell’attuale e, nonostante questo, danno il segno della fragilità e della complessità di questa particolare fetta di minorenni e della relativa inefficacia della presa in carico delle istituzioni deputate.

Possibile che tutta una serie di episodi che si sono accavallati negli anni non abbiano scosso il pensiero in materia di giustizia minorile che, nel frattempo, elaborava un ordinamento minorile[15],  peraltro atteso da molti anni, che ha molto puntato sui percorsi innovativi di giustizia riparativa e di mediazione penale oltre che su processi di responsabilizzazione, di istruzione, di formazione professionale e di educazione alla cittadinanza attiva in modo da  preparare adeguatamente la liberazione e l’inclusione sociale.

Indubbiamente un grande sforzo che non solo colmava una lacuna ma aggiornava il vecchio modello pedagogico alle ultime innovazioni nell’esecuzione penale.

Grande, quindi, è stata la sorpresa nel constare che, nonostante tale rilancio, il sistema pare essersi sfarinato come sabbia al vento, in particolare in uno dei santuari di tale idealità, il Beccaria di Milano.

I commentatori che se ne sono occupati elencano, molto opportunamente, una serie di circostanze che a Milano, ma per alcune di queste esse valgono più in generale in tutta Italia, avrebbero contribuito a tale scivolamento.

La lista ricomprende lo sciatto prolungarsi nella conduzione di lavori di ristrutturazione, l’assenza per molti anni di un direttore titolare e il conseguente frequente avvicendamento di diversi sostituti, la giovane età e la conseguente inesperienza del personale di polizia che, oltretutto, patirebbe lo sradicamento dalle loro regioni di provenienza, le presunte violenze perpetuate da una parte di quest’ultimo nei confronti dei minori e la conseguente rottura del rapporto fiduciario tra personale e comunità ristretta.

L’elenco si conclude con la constatazione che «sarebbe proprio la vocazione educativa ad essere venuta meno» e questo nonostante i nuovi investimenti che la Giustizia minorile ha prodotto, la moltitudine di attività che vengono proposte e la quantità rilevante di associazioni e volontari che fanno ingresso in istituto.

È questo che sorprende e mette in crisi i commentatori. Com’è possibile che tutto questo possa essere successo a Milano? La città che più di ogni altra può contare su risorse di questo genere e che di tali interventi ne ha, appunto, fatto uno dei suoi tanti fiori all’occhiello, veri o presunti che essi siano, pare non poter accettare quello che vive come una ingiusta ed incomprensibile onta.

Più in generale, com’è possibile che questo sia successo nell’alveo della Giustizia Minorile, che da sempre è stata e si è considerata un modello ed un apripista anche per quella degli adulti?

Alcune delle questioni elencate sono indubbiamente segno di negligenti trascuratezze, quali i tempi delle ristrutturazioni. Altre sono gli effetti di politiche generali di contenimento della spesa pubblica che, ad esempio, hanno fatto sì che per ventisette anni non si siano banditi concorsi per reclutare direttori penitenziari.

Altre ancora sono scelte ponderate quali, ad esempio, quella di preferire personale giovane a quello anziano ritenendo, quest’ultimo, deformato dalle posture adottate nel settore degli adulti.

Debole mi pare invocare lo sradicamento dalle regioni di provenienza atteso che questo sarebbe avvenuto anche se fossero stati assegnati negli istituti per adulti e che, in ogni modo, stiamo parlando di una città come Milano che offre grandi opportunità.

Del rapporto fiduciario abbiamo già detto e le violenze, oltre che come causa del malessere, dovrebbero essere valutate anche quale sintomo di altro.

Alla fine, e solo alla fine, riportando la voce degli operatori, fa capolino una variabile strutturale. «L’utenza è cambiata» dice chi ci lavora a diretto contatto.

Entrano in gioco i “ragazzini” di cui sopra e, in particolare, quanto questa immagine possa ancora coerentemente evocare il modello di aiuto, sostegno e reinserimento fino ad oggi praticato.

3. Non tornano più i conti

A nostro modo di vedere è questo lo snodo principale della questione, utile per comprendere l’afasia che questo ha determinato. Le articolate analisi condotte da alcuni Autori ci aiuteranno a delinearlo nel dettaglio[16].

Oggi gran parte della popolazione detenuta minorile è costituita dalla compresenza di due grandi gruppi. Da un lato, prevalentemente negli istituti del Nord, i minori stranieri non accompagnati ai quali si aggiungono, in particolare nel Sud Italia, italiani caratterizzati da legami di prossimità familiare con la criminalità organizzata.

La tragica condizione che caratterizza i primi, spesso senza validi punti di riferimento umani e culturali e nella peggiore delle precarietà possibili, fa sì che nei loro confronti sia più difficile l’accesso alle misure alternative al carcere che, quindi, rimane pressoché l’unica soluzione penale a differenza degli italiani.

I secondi appaiono avvezzi alle gerarchie della criminalità organizzata locale e a quadri valoriali che vedono nella commissione di reati e nell’esperienza detentiva quasi un rito di passaggio verso l’età adulta[17].

Questa combinazione, per motivi diversi, non incrocia il modello pedagogico e di reinserimento sociale oggi praticato che risulta, quindi, inadeguato.

Allora non è la “vocazione educativa” ad essere venuta meno, quanto la presa del modello stesso nei confronti di gran parte dei minori che popolano gli IPM. Come nel settore degli adulti, anche in questo caso, siamo di fronte ad una doppia popolazione penale, rispetto alle quali una, quella destinataria delle misure più neutralizzanti, non è più contemplabile nello strumentario trattamentale, ormai refrattario rispetto ai problemi di cui questa è portatrice.

Per questi c’è solo il carcere o poco più.

L’Associazione Antigone conferma che, a prescindere dalla gravità del reato commesso, chi ha legami più solidi sul territorio e maggiori opportunità favorevoli di partenza ha più possibilità di evitare la detenzione attraverso le misure alternative che sono caratterizzate da criteri di selezione rigide. Questo, ad esempio, fa sì che nel nostro caso le comunità tendano ad accettare soprattutto ragazzi provenienti dalla libertà piuttosto che dal circuito penitenziario[18].

Non è una novità, non può sorprenderci, non avrebbe dovuto farlo se solamente non fossimo caduti in analisi semplificanti e ci fossimo invece orientati in esami ed approfondimenti che avessero considerato il veloce cambiamento sociale e geo-politico che ha interessato il nostro Paese ma anche quelli limitrofi. Un’ottica diversa diretta a delineare politiche di accoglienza e prevenzione diverse dalle attuali.

Significative, in tal senso, sono le conclusioni di Girardi e Gemma secondo le quali l’istituzione penitenziaria può farsi roccaforte e presidio educativo solo se di volta in volta è aperta ad adottare, rimodellare, a seconda del setting, non la trasmissione o l’appropriazione del modello ma l’elaborazione e la ri-negoziazione del modello stesso[19].

Crediamo che questa sia una delle questioni più urgenti da risolvere anche se non quella esclusiva. Dovremo quindi tornare sul punto, integrandolo di ulteriori considerazioni relativamente all’attuale prepotente tendenza di rifiutare ed emarginare quote importanti di umanità indesiderata.

Quello che è certo è che la difficoltà di avere un modello interpretativo efficace non ha aiutato nessuno ad anticipare e gestire gli avvenimenti.

Già una manciata di anni fa, dopo la rivolta ad Airola nel settembre del 2016, il Dipartimento della Giustizia minorile ebbe a richiedere l’invio negli istituti minorili di direttori e comandanti provenienti dal settore degli adulti ritenendoli più adeguati ad affrontare quel tipo di situazioni che stavano prendendo piede.

L’episodio segna la nascita della consapevolezza crescente della scarsa tenuta di un modello sino a quel momento ritenuto in grado di accogliere il disagio e la devianza minorile che tuttavia, nel tempo, come abbiamo visto, erano mutati.

Sempre in quel periodo ci si pose il problema di come gestire gli autori delle rivolte. In quella circostanza ricordo la preoccupazione dei decisori dell’epoca, schiacciati tra la necessità di ripristinare non solo l’ordine ma anche preservare chi non vi aveva partecipato e, non ultimo, il personale che le aveva affrontate, ed il rischio di estendere a macchia d’olio la ribellione trasferendo altrove i rivoltosi. 

È un vecchio ed irrisolto problema penitenziario il dilemma se trasferire o meno i rivoltosi. In entrambi i casi ci sono rischi. Da un lato, optare per non farlo e, per questo, non riuscire a sedare la rivolta nell’istituto interessato. Dall’altro, procedere all’allontanamento e, in questo modo, rischiare di estendere la ribellione negli istituti di destinazione dei trasferiti. In genere si procede allo spostamento preferendo la strategia della dislocazione a quella della soluzione in sede.

È quello che successe pure in quella circostanza, probabilmente anche in questo caso, anche nella consapevolezza di non possedere un efficace modello interpretativo, gli strumenti e le risorse capaci per affrontare alla radice i motivi di quel disordine

Occorre dire che proprio in quel periodo, nel settore per gli adulti, stava iniziando la codificazione dei trasferimenti dei protagonisti di aggressioni nei confronti del personale o di disordini che sfocerà in una circolare apposita[20], successivamente più volte ribadita anche sull’onda delle spinte sindacali.

Un parallelismo che segna una delle tante analogie che ormai caratterizzano i due sistemi penitenziari, in barba alla negazione di un incipiente processo di omologazione dichiarata dal Rappresentante del Governo chiamato a rispondere all’interrogazione del Partito Democratico sulla questione delle divise.

A lungo andare, gli effetti dei trasferimenti hanno ingenerato una vera e propria deflagrazione dovuta all’innescarsi di un conflitto permanente tra le due sottopopolazioni degli stranieri e degli italiani, fino a quel momento rispettivamente concentrate al Nord e al Sud del Paese, venute a contatto proprio in ragione dei movimenti effettuati per motivi di sicurezza. La difficile convivenza tra i gruppi per motivi di predominanza e la messa in discussione delle regole e degli operatori ha contribuito a generare la crisi profonda alla quale si cerca oggi di dare risposta, tra l’altro, con la disposizione di reindossare la divisa ordinaria di servizio.

Ma questa non è l’unica risposta di natura repressiva.

Come nel settore degli adulti, sta aumentando l’uso del contenimento psicofarmacologico per far fronte al disagio e alla reattività dei minori[21], nonostante siano ben noti gli effetti catastrofici in termini di abuso e di dipendenza che questo genera all’interno delle strutture detentive[22].

Sono palpabili le conseguenze di tale stato di cose. Chi scrive ha avuto modo di osservare i volti di un gruppo di minori detenuti a Casal del Marmo che assistevano, totalmente assenti e silenti, ad un torneo di calcio all’interno di quell’istituto. Parevano incapaci di assorbire stimoli sensoriali al punto che il personale che li accompagnava aveva cura di appoggiare delicatamente le proprie mani sulle loro spalle per indurli a spostarsi, come se il contatto fisico quasi fosse l’unico modo di rendersi percepibile.

Lo stesso Michele Miravalle, Coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni detentive in Italia di Antigone, ha riportato la sconvolgente esperienza di entrare in visita in un IPM e trovare tutti i detenuti ancora dormienti alle 11 del mattino[23].

Chi ha condotto lo studio sull’abuso farmacologico nei minorili ha avuto modo di affermare che «oramai negli IPM c’è un clima da pronto soccorso e gli operatori non riescono a dare risposte adeguate. Il motivo starebbe nel fatto che abbiamo trascurato queste strutture negli ultimi anni e ne paghiamo le conseguenze»[24].

Tale affermazione andrebbe meglio approfondita perché bisognerebbe chiarire come mai in uno degli IPM, quello di Nisida, a parità di tipologia di popolazione, la spesa in antipsicotici è uguale a zero. E ancora più in generale, come si concilia il diffuso contenimento farmacologico con il modello pedagogico ribadito nell’ordinamento penitenziario minorile?

In quel concetto di trascuratezza va forse ricompresa l’incapacità dei più di prevedere quello che, nel frattempo, il nostro mondo scarta sempre di più, ovvero gli inutili, gli indesiderati e i disturbanti, e che i rivoli dell’esclusione sociale e della penalità spingono verso i penitenziari[25]?

Torna prepotentemente l’ipotesi che ciò che è statuito nell’ordinamento non sia più applicabile con efficacia ad una fascia prevalente dei minori detenuti.

Una ipotesi confermata dalle affermazioni di Girardi e Gemma secondo le quali è evidente che le trasformazioni esterne riverberino rapidamente anche all’interno, riducendo la capacità delle routine educative di far presa sulle nuove condizioni della popolazione detenuta, mandando in crisi il “Progetto Pedagogico d’Istituto”[26].

Qualcosa di molto più complesso dell’affermazione, che spesso si sente dire, relativa al fatto che “il clima è cambiato”.

Mi ha molto colpito l’utilizzo del concetto di “routine educativa” perché rimanda efficacemente ad un modo di procedere consolidato e ripetitivo, incapace di uscire dallo schema che lo presuppone anche quando questo è fuori tempo e ragionevolezza.

Che ci si sia adagiati sui tanto osannati fasti passati per il loro tasso di gratificazione che, in tempi più o meno lontani, ci hanno dato o abbiamo anche solo pensato che dessero?

Un modo talmente reificato che rende difficile cercarne uno diverso al punto da, in maniera totalmente contraddittorio, adottare strategie ben lontane dalla filosofia trattamentale che si è trasposta nelle norme ordinamentali.

Girardi e Gemma hanno espressamente parlato di iniziative emergenziali che «aggirano il modello pedagogico prescritto assecondando suggestioni in antitesi con l’impianto democratico del trattamento»[27].

Di fronte alla sensazione che “nulla si tiene più” è come se si fosse vittime di uno “strabismo istituzionale” composto, da un lato, dalla nostalgia dei tempi passati ma, contemporaneamente, anche dalla sedazione farmacologica e dalla repressione.

Della sedazione abbiamo già detto. Della repressione dovremmo innanzitutto dividere quella informale e violenta da quella legale e coercitiva. Entrambe sono perfettamente omologabili con quella che risaltano nel carcere per gli adulti, anzi ne prendono spunto.

Chi ha visto le immagini registrate dalle telecamere interne del Beccaria, trapelate dalle indagini in corso, non può non fare il parallelo con quelle registrate a Santa Maria Capua Vetere. I processi per entrambi i fatti sono tuttora in corso ma le vicende riportate descrivono climi diffusi e non dissimili. Una violenza endemica, non occasionale, utilizzata per gestire, addirittura “prevenire”, il disordine e per far comprendere chi comanda.

Ben altro che l’esercizio di una «potestà punitiva senza compromettere, ma anzi agevolando, la positiva evoluzione della personalità del minore in un quadro di sanzioni e misure penali che tengano in prioritaria considerazione il superiore interesse del minore, con riguardo all’età, alla salute psichica e mentale»[28], auspicato nella Relazione introduttiva dell’Ordinamento penitenziario minorile.

Il tutto avvenuto non in un istituto chiuso e refrattario alla partecipazione sociale ma, anzi, parallelamente ad un fluire di associazioni e volontari che tutti i giorni vi fanno ingresso provenienti dalla città più avanzata del Paese.

Paradossalmente questo è il motivo che rende drammaticamente significative le dichiarazioni del Cappellano del Beccaria, Don Burgio, ad un quotidiano milanese. C’è sconcerto nelle sue parole non solamente per i fatti ma anche per non essere riusciti a realizzare prima quanto stava accadendo. A posteriori si realizza che lividi e rossori, che si intravvedevano su quei visi e su quei corpi, non erano solamente frutto di scaramucce tra i minori e che nonostante l’omertà imperante tra di loro, segno evidente di una consolidata subcultura criminale, questi ultimi avevano fatto filtrare nei testi delle loro canzoni trapper le violenze e le sofferenze che stavano vivendo[29]. Emerge una barriera di sfiducia e di incomprensione, come tra due mondi contigui ma, allo stesso tempo, distanti.

Torna alla mente la trama della recentissima serie televisiva Adolescence[30] e lo smarrimento e l’impreparazione, emotiva e culturale, degli adulti coinvolti nonostante la quotidiana contiguità tra gli adulti, dai genitori agli inquirenti e agli psicologi, che affrontano l’autore tredicenne di un omicidio di una coetanea, e la rete di connivenze, regole e sanzioni informali, miti ed alienazioni proprie del gruppo dei pari.

Tornando alla repressione, quella violenta ed illegale è solo una terribile possibilità. In genere essa prende le forme legali delle misure disciplinari e, come abbiamo già detto, della dislocazione altrove di un comportamento problematico ritenuto non più affrontabile.

L’Associazione Antigone, nel suo ultimo Rapporto, ha sottolineato l’aumento delle denunce all’Autorità giudiziaria per manifestazioni di disagio che si traducono in accuse di resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamenti, risse[31].

Nel prossimo periodo sarà da considerare l’impatto che, sia nel settore penitenziario degli adulti che in quello dei minori, potrà avere il recentissimo Decreto Legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 aprile ultimo scorso[32] che, tra l’altro, introduce il reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario e che contempla la punibilità anche solamente degli atti di resistenza passiva e l’aggravamento delle pene nei casi di violenza, minaccia, resistenza o lesioni a pubblico ufficiale.

Si entra in carcere per un fatto e si rischia di aumentare la pena e di azzerare la possibilità di vedersi accordare una misura alternativa. Sembra di essere tornati al carcere ante ’75.

4. In conclusione, si fa per dire

Da tutto quanto abbiamo accennato possiamo dire che ci troviamo di fronte a due modi diversi di concepire la giustizia minorile e che, probabilmente, dovremmo concepirne un terzo, molto più ampio, in grado di prevenirne la necessità.

É evidente che l’attuale compagine governativa non ha alcuna fiducia nel modello trattamentale e che i vari interventi in materia di sicurezza e, in particolare, il “decreto Caivano”[33], hanno inciso sul codice del processo penale minorile[34]  e quindi sul modello educativo e socializzante che ne derivava in origine[35].

Il risultato non si è fatto attendere. Il numero di minori che sono entrati nel circuito penale è indubbiamente aumentato. Tra il giugno del 2019 e il 31 dicembre del 2024 sono passati da 1.521 a 1.707 ma, se si va a scomporre il dato, ci si rende conto che l’incremento è da imputarsi esclusivamente agli ingressi in carcere. All’inizio del periodo considerato, infatti, negli IPM erano presenti 403 detenuti, saliti alla fine dello stesso periodo a 588 e ancora stanno aumentando se pensiamo che, al 1 di aprile di quest’anno, il numero dei presenti è salito a 593.

Per contro le presenze nelle comunità sono rimaste sostanzialmente invariate e l’accesso alle misure alternative si è ristretto, in particolare, per le fasce più fragili quali gli stranieri.

Nel contempo per gestire la compressione e le tensioni che questo stato di cose ha generato, grazie alle previsioni del decreto citato[36], i direttori degli istituti possono richiedere ai magistrati di sorveglianza il nulla osta al trasferimento dei maggiorenni, detenuti negli IPM a seguito di reati commessi da minorenni, presso gli istituti per adulti in ragione di comportamenti che ledono la sicurezza dell’istituto e dei loro stessi compagni.

È interessante far notare che nell’aura di tale possibilità si è dato recentemente corso allo sfollamento provvisorio dei maggiorenni, provenienti da diversi IPM (Milano, Treviso, Catanzaro, Firenze) presso la Casa Circondariale di Bologna ove è stato aperto un reparto a loro dedicato.

Anche in questo caso si tratta, prevalentemente, di ex minori stranieri non accompagnati con tutto il loro carico di fragilità esplosiva che li mette a rischio di denunce che potrebbero tradursi nel definitivo spostamento nel contiguo circuito per adulti.

Vero è che il Governo si è premurato di sottolineare il carattere di provvisorio di tale provvedimento anticipando che l’apertura di nuovi IPM consentirebbe di porvi termine entro la fine del 2025.

Alcuni, tuttavia, sostengono che la prossima chiusura di quello di Treviso potrebbe interamente assorbire l’apertura di quello di Rovigo e che l’aumento del numero di minori in custodia cautelare rischia di colmare molto in fretta i nuovi posti creati senza, quindi, rallentare il problema del sovraffollamento.

Il tempo ci dirà se queste previsioni sono realistiche.

Di certo rimane il fatto che, allo stato, l’idea che la commissione di un reato da minorenne debba essere valutata e trattata nell’ambito della giustizia minorile, in ragione della condizione personologica in evoluzione dell’autore del reato, è fortemente messa in discussione attraverso queste deroghe a sfondo disciplinare e organizzativo.

Ovviamente questo nuovo corso ha dato luogo ad uno strascico di critiche documentate e pungenti.

Se si va a leggere la reazione del governo a tali critiche, per bocca della Sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro, ci si rende conto che questa fonda le sue radici in una visione nettamente diversa da quella introdotta dal Codice di procedura penale minorile del 1988[37] e dello stesso recente Ordinamento penitenziario minorile[38].

La Ferro, infatti, ritiene che il “decreto Caivano” sia la risposta concreta alla criminalità giovanile vista non tanto dal punto di vista quantitativo, peraltro in calo, quanto da quello della sua incipiente gravità ed in ragione degli effetti del suo impatto mediatico e dei rischi di emulazione che questo può generare.

Non una parola viene spesa per il trattamento e del reinserimento dei giovani che, in questo modo, entreranno nel circuito penale, specificatamente quello detentivo.

Viceversa si sottolineano le iniziative intraprese a titolo preventivo tesi a «far crescere i giovani in un ambiente di legalità ed inclusione […] partendo dagli investimenti per contrastare l’emergenza educativa e la dispersione scolastica, fino alla rigenerazione urbana e l’affidamento di beni confiscati alla criminalità organizzata». Viene al contempo sottolineato «il ruolo delle forze di polizia sul piano della prevenzione e le numerose iniziative sportive, culturali e sociali»[39].

A ben vedere tale prevenzione ha componenti repressive e para-repressive quali, ad esempio, quelle relative alla punibilità penale dei genitori in caso di inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori o l’affidamento della gestione delle attività sportive in alcune zone rigenerate ai Gruppi Sportivi dei Corpi di Polizia.

Argutamente è stato fatto notare che gli interventi legislativi introdotti nei vari decreti sicurezza che si sono succeduti, in realtà, parrebbero più finalizzati al “controllo” che alla “sicurezza”. In tal senso essi muterebbero il paradigma della penalità per come la conosciamo, sancendo il passaggio dalla “repressione di reati” alla individuazione e alla “neutralizzazione di soggettività pericolose”[40].

Il mondo ci rimanda a crescenti effluvi populisti che, da anni, perseguono la strada della creazione di un nemico per rinsaldare il consenso del proprio elettorato e per allargarlo quanto più possibile.

Questo ha sempre più generato, in carenza di tolleranza, accoglienza e accompagnamento, sacche di esclusi che, di volta in volta, hanno assunto il volto di migranti, tossicodipendenti, marginali, persone variamente orientate sessualmente.

Intorno a questi è cresciuto il rifiuto a fronte del quale si sta montando, in particolare in questi ultimi anni, una impalcatura repressiva sempre più fitta finalizzata a prevenire prevedibili forme di vera e propria ribellione[41].

È un tipo di politica che produce esclusi senza prospettive che non siano quelle della pura neutralizzazione. La risposta del Sottosegretario Ferro è quindi coerente a tale indirizzo.

Il sistema carcerario, sia quello degli adulti che quello minorile, è sempre la più valida cartina al tornasole di tale processo perché raccoglie parti consistenti di quell’esclusione sociale prima che giuridica e penale e, non dando risposte valide, la riproduce, la peggiora e la riscarica ad ogni scarcerazione per fine pena.

Questo è uno dei punti essenziali se intendiamo proporre un’alternativa al fluire degli eventi e dei fenomeni che abbiamo sin qui trattato.

Occorre riconoscere che il populismo politico fonda la sua forza persuasiva prendendo spunto dagli elementi di debolezza, di contraddizione e di fallimento che il sistema che lo ha preceduto ha dimostrato senza che si ponesse loro adeguato argine.

Pur, ovviamente, concordando sulla necessità che il carcere, sia per gli adulti che per i minori, non possa essere gestito senza umanità ed attenzione nei confronti di chi ne è destinatario, non si può sottacere il fatto che i pochi studi condotti sul rischio e sul tasso di recidiva nel settore minorile che abbiamo citato non confortano l’efficacia trattamentale di quel sistema.

Come abbiamo già detto la consapevolezza del fallimento del trattamento penitenziario[42] ha sostenuto l’idea che aumentando le misure alternative si sarebbe diminuito il ricorso al carcere incorrendo così in uno svarione non indifferente generando infatti, in questo modo, un allargamento del controllo penale[43] senza diminuire il numero dei presenti in carcere.

Un fenomeno anche questo già ben noto e prevedibile, conosciuto come net widening.

Non solo. In carcere si è oramai depositata una concentrazione di persone problematiche in una misura mai vista prima e tale da annichilire gli operatori alle prese con questioni gravi ed inedite.

La confusione tra la scarsa o nulla efficacia delle attività trattamentali all’interno degli istituti, i tentativi di ridurre il danno della carcerazione attraverso le misure alternative, la loro scarsa efficacia nei confronti di una popolazione carceraria sempre più fragile e marginale, ha costituito la base  per deridere e affossare i tentativi riformatori populisticamente etichettati come lassisti, irresponsabili e pericolosamente buonisti verso coloro i quali, nel frattempo, sono stati cristallizzati nella figura del nemico[44].

Per questo motivo non riteniamo praticabile la semplice richiesta di tornare a ripercorrere il modello educativo e socializzante adottato e praticato negli ultimi trent’anni e ora messo sotto attacco[45].

La stessa Associazione Antigone, pur riaffermando la convinzione che il sistema abbia funzionato nell’intento di rendere residuale il ricorso al carcere, riconosce che lo ha fatto meglio per alcuni e peggio per altri. Meglio per chi aveva maggiori garanzie relazionali anche prima del reato, peggio per chi ne aveva di meno. Rispetto poi al grado di applicazione delle novità introdotte con il nuovo Ordinamento penitenziario minorile, a distanza di sei anni, rileva un’applicazione parziale, in alcuni casi inesistente, e a macchia di leopardo tale da portare alla conclusione che la riforma non avrebbe fatto fare nel circuito detentivo minorile quel balzo in avanti che ci si aspettava in termini di apertura al territorio[46].

Non solo ma gli osservatori della stessa Associazione hanno registrato in molti IPM la chiusura progressiva di attività e crescenti difficoltà di accesso e di azione da parte dei volontari.

Altri hanno evidenziato che, all’esterno, la programmazione dei servizi sociali stenta a coordinarsi con i servizi sociali della Giustizia minorile segnalando l’affanno nella realizzazione non solo dei progetti trattamentali interni ma soprattutto di quelli sociali e di collegamento tra carcere e territorio[47].

Queste difficoltà nel connettere il dentro al fuori non sono frutto solamente delle ultime politiche ma si sono progressivamente acuite nel tempo, segno di un impoverimento del welfare non solo in termini finanziari ma anche nella sua capacità di leggere il campo e congegnare interventi efficaci in termini di prevenzione ed inserimento.

È una rete pubblica e privata che, con il passare degli anni, si è irrigidita, un po’ per autodifesa e un po’ per abbrivio, si è dotata, in ogni suo snodo, di procedure e di criteri di valutazione che si sommano sino a costituire un vero e proprio percorso ad ostacoli per i suoi fruitori.

Un sistema che ha generato rapporti di interdipendenza tra chi gestisce le leve finanziarie e le politiche generali e chi si occupa della progettazione e della conduzione dei progetti concreti.

L’insieme delle posture operative del complesso di questi enti più che favorire l’accoglienza dei bisogni li seleziona non trattando tutti coloro i quali non vi rispondono classificandoli come “non idonei”[48].

Questo, e non solamente l’affastellarsi dei “pacchetti sicurezza”, spiega il ridursi, non da oggi, dell’accoglimento di misure alternative al carcere e del confinamento sempre più esclusivo ed irrevocabile di intere categorie di esclusi dalla vita libera.

Che serva ripensare alle “forme di cittadinanza e al modello di Stato” per ottenere una “cittadinanza sociale inclusiva” ce ne si rende conto.

Si coglie, infatti, «una distanza che pare incolmabile tra la cittadinanza formale e il possedere davvero quei diritti che essa dovrebbe garantire» e si critica giustamente la circostanza che «tale distanza diventa, nei fatti, una giustificazione per l’utilizzo della forza, della coercizione»[49].

Quello che pare debole in tale consapevolezza, oltre alla concreta indicazione del metodo da adottarsi, che non è mai declinato nel dettaglio, è la concatenazione delle cause e degli effetti che si propone l’obiettivo e la funzione di tale cambiamento che si vuole orientato alla prevenzione della violenza negli istituti minorili.

Qui non si intende giustificare alcuna violenza ma, più pragmaticamente, prendere atto del fatto che l’incapacità di affrontare concretamente ed effettivamente i disagi, le sofferenze e i limiti di coloro i quali sono stati relegati negli istituti di pena anche per il rifiuto di occuparsene fuori, ha peggiorato ancor di più quel girone dantesco che è il carcere, seppur minorile.

C’è oggi da chiedersi se quel tanto ostentato riformismo non si sia, e in che misura, adagiato in quella forma, tanto criticata da Basaglia, di imbellettamento che, ancora di recente, è stato indicato come «utile a costruire edificanti retoriche sull’efficacia rieducativa della pena quando, nei fatti, ciò è riservato ad un numero limitato di persone»[50], in genere predestinate a questo dalle loro caratteristiche di origine.

Perché se è così, e noi crediamo che lo sia, al di là delle retoriche e delle narrazioni, rimane il conflitto spostato all’interno dei recinti, lasciato alla gestione di una organizzazione sempre più isolata e spaesata al cospetto di vissuti ed esperienze che fuoriescono dai modelli tradizionali, conosciuti ed immodificati. Un conflitto che coinvolge violentemente le parti in una spirale senza una fine e ancora lontana da essere risolta, in assenza delle conoscenze essenziali per studiare strategie alternative a quelle, frammentate, oggi esistenti all’interno del sistema minorile.

Chi se ne occupa direttamente ha di recente sottolineato la necessità di ovviare all’impossibilità per la ricerca pedagogica di attingere a dati e osservazioni indipendenti relative al funzionamento dei percorsi educativi all’interno degli IPM, anche in considerazione che il sistema non sarebbe neppure dotato di un piano di valutazione comparativo con l’individuazione degli outcomes[51].

È probabile che se questo potesse avvenire si comprenderebbero maggiormente i bisogni dell’attuale popolazione minorile detenuta e si potrebbero tentare strategie più efficaci, più a misura dei minori di cui stiamo parlando.

Le Autrici che avanzano tali proposte, per evidenziare il ritardo che le (poche) analisi condotte scontano con il mutare dei tempi, evidenziano che il modello di carcere che un gruppo di studio interdisciplinare aveva osservato a Nisida nel 2020[52] e che, di fatto, ha ispirato la serie televisiva Mare fuori, non aveva interloquito con nessuna ragazza e tantomeno con minori stranieri.

A lavoro pubblicato, nel gennaio del 2023, a seguito del trasferimento di minori stranieri non accompagnati dal Beccaria di Milano, l’assetto dell’istituto napoletano risultò radicalmente cambiato, entrò in crisi rischiando una deriva senza controllo[53].

Questo la dice lunga sulla fragilità anche dei modelli più consolidati e virtuosi e sulla difficoltà di ritarare rapidamente gli interventi al cospetto di nuovi esclusi.

Per questo motivo viene rimarcata la necessità che «Il focus degli interventi in carcere vada mantenuto costantemente e con lucidità sulla centralità di un modello pedagogico olistico e multidisciplinare, soprattutto in contesti multiculturali e intersezionali, che sappia adeguare di continuo le competenze degli operatori alla mutazione del setting d’intervento».

Un ritorno alla pratica a diretto contatto con le persone, quindi, allo studio rigoroso, allo scambio reciproco delle esperienze e alla confutazione continua di quello che si ritiene di aver nel frattempo compreso.

A loro modo di vedere «la disumanizzazione di quei luoghi può essere contrastata innervando stabilmente la formazione specifica di operatori in ambito interculturale», ovviamente sulla base delle conoscenze più aggiornate[54].

Ora sul punto serve essere molto chiari. Spesso si invoca la mancata formazione come causa della disumanità e della violenza in ambito penitenziario. In genere tali affermazioni paiono giustificazioni tardive finalizzate solamente a calmierare le conseguenze di quei gesti nei confronti delle persone che se ne sono macchiati.

Non credo che l’affermazione delle Autrici debba essere intesa in questo senso o come se la disumanizzazione e la violenza si affrontino “spiegando” al personale che picchiare ed umiliare non sono azioni lecite, tanto più se è un personale pubblico e con qualifiche proprie della polizia giudiziaria.

Viceversa, interpreto la loro indicazione come la necessità di continuare a lavorare per fornire a quello stesso personale l’aiuto teorico ed il sostegno fattivo per affrontare la complessità senza farsene annichilire al punto di reagire in modo inumano.

La loro condivisibile proposta è quindi quella di istituire un Osservatorio nazionale sulle prassi pedagogiche negli IPM così da renderle valutabili e misurabili riducendo lo iato esistente tra gli effetti desiderati, i comportamenti dichiarati e quelli agiti.

Ma ancora non è sufficiente. Per risalire la china occorre spezzare la catena che dall’esclusione sociale porta in carcere.

Questo è il punto più difficile, quello che, una volta evocato, rischia di farti apparire come uno che risolve le questioni “lanciando la palla in tribuna”.

Ma, lungi dal volerlo fare, non è possibile non affermare che la migliore e più efficace applicazione dei rimanenti, non secondari, principi propri del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario minorile, non può essere disgiunta dai suoi presupposti sociali, politici ed economici, senza i quali molto diventa vuoto simulacro di un pensiero alto ma inattuato o, addirittura, avversato.

E allora la battaglia sul carcere si fa retroguardia e le critiche e gli sforzi devono prodursi rispetto a tutto quanto può essere fatto prima del tribunale e del carcere e non in ragione di una legislazione futura, impensabile da ottenere in questi tempi di revanscismo, ma di quella già esistente e non ancora deformata dalla lotta populista al nemico di turno.

Molti anni fa esisteva una parola che scuoteva le discussioni: “Prevenzione”. Oggi pare quasi desueta, eppure sarebbe fondamentale per preservarci da molte delle questioni che ci affliggono.

Un esempio è quello che riguarda l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati che, abbiamo visto, ormai corrispondono a circa la metà del sistema penitenziario minorile e rappresentano la parte più dolente ed ingovernabile del sistema.

Occorre dare concretezza al sistema previsto per la loro accoglienza oggi, in larga parte, disatteso per carenza di strutture e soluzioni adeguate che dovrebbero essere triplicate e rese effettivamente un sistema integrato e funzionante, mentre oggi Save the Children ha definito l’accoglienza dei minorenni in Italia come una vera e propria «lotteria che determina il futuro di adolescenti che sono costretti a cavarsela da soli troppo presto»[55] e per molti dei quali, aggiungiamo noi, il carcere diventa una tappa del loro peregrinare.

Questo è solamente uno degli esempi possibili, uno di quelli che ha inciso di più nel sistema penale minorile, ma altri possono essere fatti quali, ad esempio, la crisi della scuola e la povertà[56] le cui, rispettive, inefficienze ed effetti tanta parte hanno nell’incrementare l’esclusione.

L’Italia è governata a macchia di leopardo e ci sono evidentemente “sensibilità” diverse su questi temi. Per qualcuno è motivo di barricate ed esclusione, per altri no.

Una cosa è certa, se chi oggi vive la condizione degli istituti minorili come un dramma da affrontare allargasse lo sguardo, le critiche e gli interventi, alle fonti problematiche che li alimentano, allora probabilmente si aiuterebbe quel sistema a recuperare credibilità ed efficacia togliendo così l’alibi dell’insicurezza e la necessità della repressione a chi, invece, oggi gioca sulla sua inefficacia per predicare il rifiuto, il respingimento e la mera neutralizzazione.

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>>> Per scaricare il fascicolo 2 della Rivista, pubblicato il 21 luglio 2025, clicca qui.

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note

[1] P.C.D. 1 ottobre 2024 – Uso dell’uniforme di servizio, trasmessa a tutte le strutture dipendenti con nota DGCM n. 66224.U del 3 ottobre 2024.

[2] Dichiarazione apparsa sul suo profilo Facebook il 4 ottobre 2024.

[3] Interrogazione al Ministro della Giustizia 3.01588 del 28 novembre 2024 – On. Di Biase, Gianassi, Lacarra, Serracchiani – Chiarimenti in ordine all’utilizzo delle uniformi del personale di Polizia penitenziaria all’interno degli istituti penali minorenni.

[4] D.M. 24 febbraio 2004 – Determinazione della foggia del vestiario del personale del Corpo di polizia penitenziaria appartenente al contingente del Dipartimento per la giustizia minorile (G.U. Serie Generale n. 78 del 2 aprile 2004).

[5] Per chi fosse interessato potrà trovare le caratteristiche di tali uniformi nelle tabelle allegate al Decreto. In sostanza si tratta, sia per l’inverno che per l’estate, di abiti civili composti da giacca, pantaloni, gonne per le donne, di colore grigio, camicie celesti, polo estive blu, cravatte blu, scarpe in pelle nera, di tessuto adeguato alle stagioni invernale ed estiva.

[6] Il D.M. 10 dicembre 2014 – Caratteristiche delle uniformi degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria e criteri concernenti l’obbligo e le modalità d’uso – G.U. Serie Generale n. 52 del 4 marzo 2015,  che attualmente regola la materia, ha infatti abrogato il D.M. 24 gennaio 2002 – Disposizioni concernenti l’uso, in durata e la foggia del vestiario e dell’equipaggiamento in dotazione al Corpo di polizia penitenziaria – G.U. Serie Generale n. 38 del 14 febbraio 2002 e il D.M. 4 dicembre 2003 – Insegne di qualifica del ruolo degli Ispettori – G.U Serie Generale n. 16 del 21 gennaio 2004.

[7] Andreoli V., L’ira funesta: Come frenare la distruttività del mondo contemporaneo, Solferino, Milano, 2025, p. 69. È per questo motivo che nei decenni passati sono stati effettuati studi per rendere anonime e meno impattanti le divise in uso nel personale penitenziario che opera nel settore adulti in alcuni Paesi Nord-Europei. L’argomento è tutt’ora di attualità atteso che in letteratura, soprattutto quella anglofona, si ritrovano lavori finalizzati a comprendere gli effetti dei vari tipi di foggia, colore, equipaggiamento, delle uniformi nei confronti delle persone che vengono a contatto con le forze di polizia. Da questo punto di vista tutti gli Autori sono concordi che le uniformi generino reazioni emotive e comportamentali sia in chi le indossa che in chi le incontra. (Westby B., Stone R., Bonner D., Law enforcement uniforms and public perception: An overview and pilot study, in Sage Journals, 67, 1, 2023). Dal punto di vista dei cittadini ci sono molte prove a sostegno del fatto che l’aspetto degli agenti inferisce sulla percezione del pubblico, in particolare, facilita la loro individuazione in luoghi pubblici e, più in generale, l’identificazione del loro ruolo. Dal punto di vista emotivo l’uniforme indurrebbe una percezione di maggiore competenza ed autorità anche se uniformi di foggia meno militare o addirittura civili farebbero propendere per una minore aggressività ed intimidazione. Altri Autori hanno evidenziato che divise di taglio eccessivamente militarizzato ostacolano la crescita della fiducia ed evoca sentimenti negativi negli interlocutori (Blaskovits B., Bennel C., Baldwin S., Ewanation L., Brown A., Korus N., The thin line between cop and soldier: Examining public perceptions of the militarized appearance of police, in Police practice and research, 23, 2, 2022). Alcuni hanno esaminato non solamente il tipo di foggia ma anche le possibili reazioni al loro colore evidenziando che quelle più scure possono promuovere sentimenti negativi nei cittadini essendo percepite come cattive, fredde, energiche, ostili, aggressive (Johnson R.R., Police uniform color and citizen impression formation, in Journal of Police and Criminal Psycology, 20, 2, 2005, pp. 58-66).   Occorre considerare che tali percezioni sono state sondate in campioni di popolazione libera che guardano alle forze di polizia come a dei tutori della propria sicurezza e non tra persone criminali o detenuti che, molto probabilmente, le vedono come un rischio. In tal senso gli elementi positivi rilevati, quali la sensazione di autorità, affidabilità e competenza possono assumere connotazioni negative in questa seconda popolazione. Infatti rispetto alla percezione di chi la indossa, in particolare nel contesto detentivo, è stato fatto notare che l’uniforme determina in larga misura il comportamento del personale creando stress nella gestione del carcere e solidarietà tra il personale (Simpson R., Sergeant E., Exploring the perceptual effects of uniform and accoutrements among a sample of police officers: The locker room as a site of transformation, in Journal of Policy and Practice, in Oxford University Press, 16, 4, dicembre 2022).

[8] Piccione D., Il pensiero lungo: Franco Basaglia e la Costituzione, alpha beta Verlas, Merano, 2014

[9] Alibrandi D., Il Beccaria e gli altri IPM, quel modello virtuoso ormai alla deriva, Il Dubbio, 24 aprile 2024; Alibrandi D., Così fallisce una giustizia minorile che era un modello, Il Dubbio, 13 maggio 2024; Associazione Antigone, A un anno dal Decreto Caivano: Il dossier di Antigone sull’emergenza negli Istituti Penali per Minorenni, www.antigone.it, 2 ottobre 2024, p. 12

[10] Associazione Antigone, A un anno dal Decreto Caivano: Il dossier di Antigone sull’emergenza negli Istituti Penali per Minorenni, cit., p. 11

[11] Per la precisione al 15 febbraio ultimo scorso, stando ai dati pubblicati dal Ministero della Giustizia, se ne contavano 95.315 contro i 61.916 detenuti presenti negli istituti penali per adulti

[12] Pubblicato sul proprio profilo Facebook il 4 ottobre 2024

[13] Maggiolini A., Ciceri A., Macchi F., Marchesi M., Pisa C., La valutazione del rischio di recidiva nei servizi della giustizia minorile, in Rassegna Italiana di Criminologia, II, 3, 2008, pp. 482-493

[14] Mastropasqua I. (a cura di), La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato, Gangemi Editore, Roma, 2013

[15] D.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 – Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103

[16] Girardi F., Gemma S., La mediazione interculturale per la costruzione del progetto pedagogico in ambito penitenziario: il caso dell’IPM di Nisida, in Cultura pedagogica e scenari educativi, 2, 2, dicembre 2024, pp. 59-65

[17] Girardi F., Gemma S., La mediazione interculturale per la costruzione del progetto pedagogico in ambito penitenziario: il caso dell’IPM di Nisida,cit., p. 62, riprendono le riflessioni di Di Gennaro e Iavarone di seguito citati

[18] Associazione Antigone, XX Rapporto sulle condizioni di detenzione – Minori, www.rapportoantigone.it, 2024

[19] Girardi F., Gemma S., La mediazione interculturale per la costruzione del progetto pedagogico in ambito penitenziario: il caso dell’IPM di Nisida,cit., p. 61

[20] Nota GDAP n. 0316870.U – Trasferimenti dei detenuti per motivi di sicurezza, del 10 ottobre 2018

[21] Secondo uno studio condotto dalla rivista Altreconomia nel 2023 in cinque IPM sparsi sul territorio nazionale, la spesa pro capite per gli antipsicotici è aumentata mediamente del 30% tra il 2021 e il 2022 ed è ormai molto simile a quella che si registra negli istituti per adulti. Il rapporto infatti è di 24.5 euro tra gli adulti contro i 19 euro registrato negli istituti per minorenni (Rondi L., Gli psicofarmaci negli istituti penali per i giovani reclusi, in Altreconomia, n. 263, ottobre 2023)

[22] Ancora di recente, il 28 febbraio 2025, se ne è discusso in un affollato convegno intitolato Carcere, dipendenze e farmaci: un rapporto problematico organizzato a Verona dall’Azienda Ospedaliera Universitaria di quella città. Il focus del confronto era centrato sulla necessità di porre maggiore attenzione, se non decisamente di evitare, nel dispensare alcuni tipi di psicofarmaci puntando, viceversa, su altri più sicuri per la salute dei detenuti piuttosto che rispondere a logiche di contenimento e di controllo

[23] Rondi L., Gli psicofarmaci negli istituti penali per i giovani reclusi, cit.

[24] Ibidem

[25] Bauman Z., Vite di scarto, Laterza, Bari, 2022

[26] Girardi F., Gemma S., La mediazione interculturale per la costruzione del progetto pedagogico in ambito penitenziario: il caso dell’IPM di Nisida,cit., p. 64

[27] Ibidem

[28] Www.governo.it, Relazione illustrativa dello schema di Decreto Legislativo recante disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minori, pp. 2-4

[29] Gianni A., Don Burgio, torture al Beccaria? “I trapper parlano di violenze e abusi in carcere, ma non sappiamo ascoltare”, Il Giorno, 30 aprile 2024

[30] Adolescence è una miniserie televisiva britannica, ideata da Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini, uscita nel 2025 che affronta in quattro puntate il rapporto tra alcuni adulti ed un omicida tredicenne. Attualmente è visionabile sul servizio streaming Netflix

[31] Associazione Antigone, XX Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione – Minori, www.rapportoantigone.it, 2024

[32] Decreto Legge 11 aprile 2025, n. 48– Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario, (G.U. Serie Generale n. 85 del 11.04.2025)

[33] D.l. 15 settembre 2023, convertito, con modifiche, in L. 13 novembre n. 159 – Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale

[34] D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 – Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, (G.U. n. 250 del 24 ottobre 1988, S.O.)

[35] Per dare la misura della differenza di approccio ricordiamo che, al momento dell’entrata in vigore del codice processuale minorile nel 1988, all’IPM Ferrante Aporti di Torino, per lunghi mesi, rimase solamente un minore, al punto che il personale faceva a turno per intrattenerlo ed evitare un isolamento continuo indotto

[36] Art. 9, L. 13 novembre 2023, n. 159 – Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123, recante misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale (G.U. Serie Generale n. 266 del 14.11.2023)

[37] D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 – Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni

[38] D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 – Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1 cc 88, 83 e 85, lett. p) L. 103/2017

[39] Landi S., Quando Mare Fuori non c’è: l’emergenza carceri minorili, www.lumsanews.it, 25 marzo 2025

[40] Palma M., Il limite costituzionale travolto dal decreto sicurezza, Il Manifesto, 8 aprile 2025

[41] Si vedano, in particolare le considerazioni di Clover J., Riot. Sciopero. Riot: una nuova epoca di rivolte, Meltemi, Milano, 2023, pp. 177 e ss.

[42] Peraltro ampiamente noto già negli anni ’70 se solamente prendiamo in considerazione le riflessioni espresse nel 1974 da Robert Martinson che rispetto all’efficacia dell’attività trattamentale concludeva con un lapidario «nothing works» (Martinson R., What Works: Questions and Answers About Prison Reform, in Public Interest, 35, 1974)

[43] Ronco D., In alternativa. Numeri, tipologie e funzioni delle misure alternative, in Associazione Antigone, Torna il carcere – XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, www.antigone.it

[44] Mosconi G., Decostruire la pena: Per una proposta abolizionista, Meltemi, Milano, 2024, pp. 224-225

[45] Aliprandi D., Il Beccaria e gli altri IPM, quel modello virtuoso ormai alla deriva, Il Dubbio, 24 aprile 2024

[46] Associazione Antigone, XIX Rapporto sulle condizioni di detenzione – Minori, www.rapportoantigone.it, 2023

[47] Girardi F., Gemma S., La mediazione interculturale per la costruzione del progetto pedagogico in ambito penitenziario: il caso dell’IPM di Nisida,cit., p. 60

[48] Buffa P., Inidoneo! Quando i criteri valutativi e le prassi trattamentali perpetuano l’esclusione, in Bezzi R., Oggionni F., (a cura di), Educazione in carcere: Sguardi sulla complessità, Franco Angeli, Milano, 2021, pp. 192-199

[49] Verdolini V., Le violenze all’IPM Beccaria non sono un caso, www.lucysullacultura.com, 3 maggio 2004

[50] Mosconi G., Decostruire la pena: Per una proposta abolizionista, cit., p. 101

[51] Girardi F., Gemma S., La mediazione interculturale per la costruzione del progetto pedagogico in ambito penitenziario: il caso dell’IPM di Nisida,cit., p. 61

[52] Di Gennaro G., Iavarone M.L., Ragazzi che sparano: Viaggio nella devianza grave minorile, Franco Angeli, Milano, 2023

[53] Girardi F., Gemma S., La mediazione interculturale per la costruzione del progetto pedagogico in ambito penitenziario: il caso dell’IPM di Nisida,cit., p. 62

[54] Idem, p. 65

[55] Save the Children, Nascosti in piena vista: Minori migranti (attra)verso l’Europa, www.savethechildren, gennaio 2023, p. 7

[56] Secondo i dati ISTAT pubblicati nel dicembre 2023, nel 2022, il rischio di povertà o di esclusione sociale colpiva il 28.8% dei bambini e ragazzi di età inferiore a 16 anni a fronte del 24.4% dell’intera popolazione

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